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Mamme lavoratrici: il bonus con beffa

Doveva essere un aiuto alle madri con figli che lavorano, per dimostrare che figli e lavoro femminile possono andare insieme. Invece le famiglie devono fare bene i conti: l'aumento dell'imponibile potrebbe portare a un taglio dell'assegno unico o di altri benefici

di Redazione

Eugenia Roccella

«Il concetto che noi vogliamo stabilire è che una donna che mette al mondo almeno due figli, in una realtà nella quale abbiamo disperato bisogno di invertire i dati sulla demografia, ha già offerto un importante contributo alla società. E quindi lo Stato cerca di compensare pagando i contributi previdenziali, facendo una cosa che non solo aiuta in termini di riconoscimento pensionistico, ma che aiuta anche a smontare il racconto per il quale favorire la natalità è un disincentivo al lavoro delle donne. Noi vogliamo dire esattamente il contrario, vogliamo dire che le due cose possono stare perfettamente insieme e che vogliamo incentivare, ovviamente per chi mette al mondo dei figli e nel caso in cui voglia lavorare»: così a ottobre Giorgia Meloni spiegava la misura del “bonus mamme lavoratrici”, uno dei primi punti fermi della legge di bilancio 2024.

Già allora Chiara Saraceno metteva in luce come problematico il rivolgersi alle donne con tre figli: «in Italia il problema è avere il secondo figlio, se non il primo. Il terzo figlio ormai riguarda una minoranza. Se vuoi davvero incidere sulla natalità devi insistere sulle condizioni per permettere alle coppie di mettere al mondo il secondo figlio, non il terzo», diceva. 

Ora che il bonus sta partendo (lo vedremo debuttare nella busta paga di febbraio, compreso l’arretrato di gennaio) vengono al pettine però le criticità di una misura che dà alle donne meno di quanto vorrebbe far sembrare.

Già lo scorso autunno erano state mosse alcune critiche: è un bonus, temporaneo per definizione; non è universale; avvantaggia di più i redditi medio-alti. Adesso le simulazioni mostrano dal fatto che lo Stato si assuma l’onere di pagare la quota contributiva a carico della lavoratrice dipendente non deriva un in busta paga un analogo aumento della retribuzione netta. La diminuzione della trattenuta previdenziale fa aumentare l’imponibile fiscale e di conseguenza l’Irpef da pagare. Inoltre all’aumentare del reddito lordo aumenta anche l’Isee e quindi cala l’assegno unico. Di fatto quindi le donne potrebbero vedere sì aumentare lo stipendio netto in busta paga, ma in conseguenza di ciò vedere una riduzione di altre misure di sostegno come l’assegno unico.

Si tratta di un meccanismo a cascata che si sta già verificando in questi primi mesi del 2024 anche per l’assegno unico universale: il 2023 è il primo anno coperto integralmente dall’assegno unico e i nuovi Isee del 2024 quindi stanno riservando sorprese alle famiglie, risultando più alti del solito proprio per effetto dell’assegno unico.

Secondo la simulazione di Fisac Cgil, una lavoratrice con figli che abbia un lordo mensile di 2mila euro avrà un esonero contributivo di 64 euro, ma la sua retribuzione netta aumenterà solo di 49 euro perché ci sono 15 euro di Irpef in più da pagare. Se il reddito lordo è di 3mila euro, invece, lo sgravio contributivo sarà massimo e pari a 250 euro ma la retribuzione netta aumenterà di  soli 163 euro.

O si si tratta di un errore dei tecnici nella scrittura della norma o si tratta di uno dei classici casi di ‘illusione fiscale’

Adriano Bordignon

Errore dei tecnici o voluta illusione fiscale?

«Il bonus mamme lavoratrici presenta troppe contraddizioni per potersi tradurre effettivamente in una misura di politiche familiari e per la natalità adeguata. Non è una misura né universale, visto che sono escluse le libere professioniste e le donne con lavoro precario, né strutturale ed è anche meno generosa di quanto sembrava all’inizio. Gli effetti fiscali che si stanno palesando ridimensionano ulteriormente questo provvedimento», commenta Adriano Bordignon, presidente del Forum delle Associazioni Familiari. «O si si tratta di un errore dei tecnici nella scrittura della norma o si tratta di uno dei classici casi di ‘illusione fiscale’: con una mano lo Stato dà 10 sulla carta, ma poi di riprende 4 con l’altra, e così risparmia risorse. Auspichiamo un provvedimento d’urgenza che elimini gli effetti negativi collaterali di questa misura. È l’occasione per intervenire in modo analogo per sterilizzare gli effetti collaterali dell’Assegno Unico 2022 che ha fatto schizzare l’Isee di moltissime famiglie privandole potenzialmente della possibilità di numerosi altri vantaggi: dal bonus nido all’integrazione all’affitto, dal bonus bollette alle agevolazioni per le tasse universitarie o per la mensa scolastica e addirittura per l’accesso al Banco alimentare. Se lo Stato vuole veramente incidere sui processi con queste misure, deve sterilizzarne gli effetti negativi»

I bonus non fanno ripartire la natalità. Se solo si avesse il coraggio di fare il Quoziente familiare, risolveremmo tutto. Il Governo vuole dare seguito alle promesse fatte o erano solo dichiarazioni elettorali?

Gigi De Palo

Il tempo dei bonus è finito

Il tempo dei bonus è finito anche per Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità: «È necessaria una riforma fiscale strutturale, se ne parla tanto, da tempo, ora bisogna farla, senza se e senza ma. Il bonus per le mamme lavoratrici dimostra che questi bonus vengono fatti in fretta senza una reale pianificazione e senza calcolare le loro conseguenze fiscali. «I bonus non fanno ripartire la natalità. Se solo si avesse il coraggio di fare il Quoziente familiare, come aveva promesso questo Governo, risolveremmo tutto. Sono passati due anni e non ce n’è traccia. Il Governo vuole dare seguito alle promesse fatte alle famiglie o erano solo dichiarazioni elettorali?».


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