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Carcere & salute mentale

Per aiutare mio figlio, studio psichiatria e faccio l’attivista

Un figlio, A., che è stato cinque anni in penitenziari e in comunità. Una mamma, Rossella, che per sostenerlo, s'è messa a studiare e impegnata nell'associazionismo. «Noi genitori ci sentiamo abbandonati», racconta. Prosegue il viaggio di VITA, dedicato al tema della salute mentale all'interno dei penitenziari italiani

di Ilaria Dioguardi

È «arrabbiata con il mondo delle carceri» la mamma di A., uomo di 33 anni, uscito recentemente dal carcere. Ma è anche piena di energia, di voglia di capire suo figlio e di aiutarlo. Studia psichiatria, è un’attivista. La storia di Rossella Biagini e di suo figlio A. chiude una serie di articoli di VITA dedicati al tema della salute mentale nelle carceri italiane.

«A. mi ha chiamato un pomeriggio di due mesi fa, dicendomi che non sapeva come venire a casa. Dopo cinque anni tra comunità e carceri varie della Toscana e dell’Emilia-Romagna, per reati minori legati all’uso di sostanze, aveva completamente perso ogni senso della realtà: non era neanche in grado di fare un biglietto del treno. Nessuno aveva avvertito, né noi genitori né l’avvocato, che sarebbe uscito dal carcere. Siamo andati a prenderlo, aveva buste della spazzatura piene di vestiti».

Biagini, ci racconta la detenzione di suo figlio?

Non posso sapere esattamente cosa succede in carcere, lui ne vuole parlare a tratti e con dolore. Ancora oggi ha gli incubi la notte. Mi sono iscritta a uno sportello per familiari di carcerati, di mutuo aiuto. Purtroppo so di tante esperienze di ex carcerati che concordano con quello che mi dice A. a tratti. I detenuti fanno largo uso di psicofarmaci. Io sono rimasta scioccata perché mio figlio, i primi giorni che era in casa, si svegliava con gli incubi, mi diceva che gli agenti andavano in cella e, con la luce, cercavano di svegliarlo ogni due-tre ore. Il motivo è che volevano vedere se era vivo, ma in effetti è una “tortura”. In carcere gli educatori sono pochissimi, gli psicologi sono pochi. Non in tutte le carceri e non in tutte le comunità si fanno attività, purtroppo, sarebbero molto importanti.

Rossella Biagini

Prima, suo figlio A. era seguito?

Prima di essere arrestato, mio figlio era seguito dal reparto di psichiatria e poi dal Ser.D. (servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale) per attacchi di panico, disturbo borderline di personalità, uso di sostanze. Può far bene a un ragazzo tossicodipendente con problemi di personalità stare in un carcere?


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Come ha affrontato i disturbi di suo figlio?

Io ho iniziato a studiare psichiatria, quando mio figlio ha iniziato ad avere problemi. Volevo capire come stava, cosa aveva. Ho parlato con medici dissidenti, ho conosciuto associazioni che, come me, lottano per i diritti dei più fragili o, meglio ancora, svantaggiati. Non avrei mai pensato di diventare un’attivista, ma dopo le esperienze di mio figlio e quelle di tanti giovani (a cui è costata anche la vita), ho deciso che dovevo fare qualcosa. Il dramma personale si può trasformare in una risorsa per aiutare gli altri. Il dolore diventa rabbia, ma anche passione, non ci si sente più inerti burattini in mano alle istituzioni. Si capisce che “insieme si può fare”.

In che modo “Insieme si può fare”?

Io e altri genitori abbiamo creato la pagina Facebook Mat in Italy nata nel 2017, per dare informazioni sulla psichiatria e sui farmaci: ci sono degli esperti che ci aiutano, una farmacologa e degli psichiatri. Mio figlio è stato adottato, faccio parte anche di un gruppo che si chiama Famiglie in rete, di genitori di ragazzi borderline, molti sono adottati. Noi genitori non siamo molto seguiti, una volta che adottiamo i bambini. A. è stato adottato quando aveva cinque anni, le condizioni degli orfanotrofi in alcuni paesi sono tremende. A quei tempi le maestre non erano preparate a seguire bambini che possono essere più vivaci, ha anche subìto bullismo dai compagni. Il grande numero dei suicidi in carcere avviene perché i detenuti hanno paura del futuro. Lui mi scriveva: «Se non ho un progetto di vita per il futuro mi uccido». Il lavoro non c’è, lui vive con noi e lo sosteniamo. Ma se non ci fossimo noi non avrebbe niente e nessuno

Noi genitori di persone con problemi di salute mentale ci sentiamo abbandonati, in completa solitudine

Lei è anche impegnata nell’associazionismo, giusto?

Io sono volontaria attiva dell’Aicat, nata come associazione per combattere l’alcolismo ma si occupa di marginalità. Organizziamo degli incontri di gruppo una volta alla settimana, per persone con problemi di depressione, tossicodipendenza, ludopatia. Sono membro di Diritti alla follia, associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico. In questi anni ho fatto tanto, per cercare di capire e per rendermi utile. Ma i risultati sono minimi.

Voi genitori di persone con problemi di salute mentale, vi sentite seguite?

Assolutamente no, ci sentiamo abbandonati, in completa solitudine. Quando mio figlio era adolescente, avevo visto che iniziava a frequentare ragazzi che non mi piacevano, andai da un assistente sociale, che mi disse che non poteva intervenire finché non commetteva un reato. Ci rimasi malissimo. Poi, anche quando commettono un reato, chi interviene? I magistrati, la polizia e basta. Ovviamente, non dico che bisogna perdonare un furto, ma che non bisogna abbandonare le persone, soprattutto quelle più fragili. Mio figlio ha avuto qualche incontro con l’assistente sociale e con una psicologa del Ser.D. Lui è uscito da poco dal carcere, so di altri detenuti che sono usciti da qualche anno, a cui viene offerto ogni tanto una borsa lavoro di una decina di giorni. Questo è futuro?

Che cosa bisognerebbe fare?

Sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutti i convegni sono utili. Anche il tema dell’amministratore di sostegno è importante, ma anche questo è un ginepraio. Sono delusa, c’è un movimento ma i risultati raggiunti sono veramente pochi. Le comunità che ci sono non funzionano tutte bene. Le Rems sono poche. Bisognerebbe istituire dei luoghi in cui poter espiare i reati, ma solo per tossicodipendenti, con attività vere e proprie, non mandarli in carcere. SI potrebbe adattare una ex caserma a una struttura di reinserimento e riabilitazione. In carcere sono tantissime le persone tossicodipendenti.

Come sta suo figlio ora?

I primi giorni a casa sono stati duri. Va dallo psicologo, sta smorzando un po’ le tensioni, si sta dando da fare per trovare lavoro.

Per approfondire
Ecco la serie di articoli che VITA ha dedicato al tema della salute mentale all’interno dei penitenziari italiani:
Autori di reato con disturbi psichiatrici: quale percorso per loro?
Autori di reato con disturbo mentale? Noi li curiamo così
Il carcere? Senza lavoro diventa uno scivolo verso il disagio mentale

Foto di apertura di Hamed Mehrnik da Pixabay
Foto dell’intervistata tratta dal video 2° presidio a Firenze per Yaska e LE ALTRE


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