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Portami a casa: l’affido familiare di bambini con disabilità

Bambini e ragazzi con disabilità o con problematiche sanitarie rappresentano una sfida nella sfida per l'affido. «Non è vero che questi bimbi "non li vuole nessuno", ma facendo conoscere meglio le storie di chi li ha già accolti, possiamo far capire che la famiglia è un diritto per tutti, anche per loro», dice Caterina Nania. Il progetto, attivo da tre anni in Piemonte, ora parte in Lombardia

di Sara De Carli

Caterina e suo marito hanno due figli con disabilità, in affido. Sofia ha 13 anni e una tetraparesi spastica, Gabriel ha 28 anni ed è affetto da autismo. Vivono con loro dal 2011: i loro due figli, all’epoca, avevano uno 3 anni e l’altro era appena nato. Oggi oltre a loro, in famiglia ci sono altri due ragazzi in affido. Da pochissimo invece Caterina ha accompagnato nella sua famiglia affidataria un’altra bimba: ha un anno e da quando è nata non è mai uscita dall’ospedale. Finalmente avrà una famiglia anche lei. Caterina ha raccolto 15 storie nel volume Portami a casa. Storie di straordinaria accoglienza (Sempre Editore): avverte la necessità di raccontare – di più, di “testimoniare” – le storie di chi accoglie in affido e in adozione un bimbo con patologie complesse o con disabilità «perché a volte nemmeno gli operatori sanitari e sociali credono in questa possibilità. Ma anche questi bambini hanno diritto ad avere una famiglia, per questo è importante testimoniare che si può fare. Non dobbiamo smettere di credere nell’affido», dice. «In famiglia vedi i bambini rifiorire: per gli stimoli dei fratelli, per la costanza dei punti di riferimento, per il fatto di sentirsi scelti e amati», sottolinea.

Ho raccontato la storia di Caterina Nania qualche mese fa nella newsletter “Dire, fare, baciare”, riservata agli abbonati di VITA (la potete leggere qui e qui invece potete iscrivervi). La scelta fatta dalla sua famiglia si inserisce però in un progetto più ampio. Caterina infatti fa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, che ha sempre avuto un’attenzione particolare per l’affido di bambini con disabilità. Marta e Paolo, della Papa Giovanni XIII, hanno raccontato la loro esperienza anche all’interno del podcast “Genitori a tempo, genitori e basta. Storie di affido familiare” a cura di Giampaolo Cerri.

L’affido di bambini con disabilità o problematiche sanitarie

L’esperienza decennale della Papa Giovanni XXIII è confluita nel progetto “Portami a casa”, rivolto ai tanti bambini con disabilità o patologie che trascorrono tempi lunghissimi in ospedale, da soli, senza nessuno che li coccoli, li accarezzi, gli doni affetto. Medici, infermieri e personale ausiliario dinanzi a questi casi si affezionano sempre, ma la routine quotidiana del reparto impone i suoi tempi. Il progetto mira a facilitare la possibilità di trovare una famiglia accogliente per questi bimbi, attraverso la costruzione di una rete multidisciplinare che vede la presenza di una persona esperta della Papa Giovanni XXIII e mettendo subito a disposizione caregiver volontari extrafamiliari non professionali che non lascino mai soli i bambini, prima in ospedale e poi a casa, a supporto della famiglia affidataria. 

La famiglia è un diritto per tutti, anche per i bambini con disabilità. Non è vero che questi bambini non li vuole nessuno

Caterina Nania, progetto “Portami a casa”

All’affido possono candidarsi sia coppie sia singoli. In tre anni in Piemonte sono stati formati una novantina di volontari e una cinquantina sono operativi: ora il progetto sta partendo anche in Lombardia, in particolare su Como e Milano (in allegato la locandina degli incontri informativi e formativi, in partenza il 30 gennaio e qui il link per le iscrizioni).

«L’accoglienza di bambini disabili o con situazioni sanitarie complesse è un’esperienza complessa ma realizzabile», dice Caterina, che è psicologa oltre che mamma e che segue in prima linea il progetto “Portami a casa”. Il video che racconta la storia di Bianca, questo, lo capire fa benissimo.

«Occorre mettere a disposizione una rete di supporto, questo è fondamentale, come pure il non limitarsi ad aspettare che le famiglie disponibili “arrivino”: chiediamo sempre, per esempio, che un giudice o un assistente sociale incontrino il bambino di persona, perché spesso abbiamo visto che quell’affido che leggendo le relazioni mediche pare impossibile, nell’incontro diventa plausibile. A quel punto cambia anche il modo in cui presentano il bambino alle coppie». E ancora: «Bisogna ripensare le modalità di abbinamento, migliorare la qualità delle informazioni che si danno alla famiglia, mettere in rete i tribunali italiani e le loro banche dati: non è vero che questi bimbi “non li vuole nessuno”, ma facendo conoscere meglio i bambini e le storie di chi li ha già accolti, possiamo far capire che la famiglia è un diritto per tutti, anche per i bambini con disabilità».

Foto di Markus Spiske su Unsplash


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