Verso il referendum
Edith: «Il mio primo “Sì” da italiana per chi rischia di non farcela»
Nigeriana, in Italia dal ’98, sposata con un italiano e con un figlio. Mancava solo lei all’appello in famiglia. Ha ottenuto la cittadinanza dopo un percorso tortuoso. Oggi avvia al lavoro altri immigrati con l’associazione Don Bosco 2000, in Sicilia: «Ci sono tanti ragazzi ben integrati, con figli, che per il reddito non potranno mai richiedere la cittadinanza: questo favorisce l’esclusione»

Questa è una storia di cittadinanza. Prima rimandata per scelta (e difficoltà economiche), poi a lungo sospirata e, infine, ottenuta, nell’arco di 25 anni di vita nel nostro Paese. Edith arriva in Italia nel 1998 dalla Nigeria, con un visto turistico. Dopo un anno di volontariato a Catania, presso una comunità di accoglienza per bambini, grazie ad alcune amiche, trova lavoro in un hotel di Piazza Armerina, in provincia di Enna dove lavorerà per i successivi dieci anni. Lì conoscerà anche suo marito «piazzese doc», impiegato nella stessa struttura.
I primi anni
«Dopo il matrimonio, nel 2002, non consideravo ancora la cittadinanza italiana come una priorità», ammette Edith. Le cose iniziano a cambiare, pian piano, dopo il lieto evento del 2005, cioè l’arrivo di suo figlio. Naturalmente, con padre italiano, acquisisce la cittadinanza alla nascita. Ma passa ancora del tempo: «Nel 2009 ho iniziato seriamente a voler intraprendere la procedura per la cittadinanza. All’epoca era tutto diverso. Bisognava recarsi all’ambasciata nel Paese d’origine e lì avviare la pratica».
Tentativo fallito
Complice il viaggio organizzato per andare per la prima volta in Nigeria con la sua nuova famiglia ha attivato l’iter che, però, non è andato in porto: «Rientrata in Italia, dall’ambasciata italiana chiamavo, come previsto, quella in Nigeria, ma non mi rispondevano più, nonostante avessi avviato la pratica con loro. Era diventato tutto così stressante che ho lasciato perdere».
Via dal lavoro
Intanto la vita va avanti. Nel 2010 Edith sceglie di lasciare il lavoro: «Crescere mio figlio, con l’inizio della scuola, non era compatibile con il lavoro al ristorante dell’hotel». Come si dice, però, a volte si chiude una porta e si apre un portone: «Fortunatamente, nel 2011 incontro la Don Bosco 2000, dove ho iniziato a lavorare prima come interprete, poi come mediatrice culturale e, infine, come figura professionale per l’inserimento lavorativo». L’incontro con la realtà salesiana avviene in seguito all’arrivo presso l’associazione di alcuni gruppi di nigeriani. Spinta dalla curiosità, Edith va a conoscerli e l’iniziale incontro con Agostino Sella, il presidente della Don Bosco 2000, sua moglie Cinzia e via via tutti gli altri: «Anche in questo caso ho iniziato come volontaria, finché non mi hanno proposto di lavorare insieme a loro. Nell’attività di avviamento al lavoro collaboro con oltre 40 aziende del territorio».
Questura e dintorni
Ma torniamo alla cittadinanza: «Ad ogni cambio di governo, come si sa, cambiavano di pari passo le leggi in materia. Perciò, essendo sposata con un italiano, dovevo ogni volta aggiornare il permesso di soggiorno per motivi familiari di cui disponevo. Stare dietro agli appuntamenti per il rinnovo, andare in questura e poi attendere il permesso era sempre più snervante e pesante».
La volta (quasi) buona
Così arriviamo al 2021 quando Edith chiede di rifare la richiesta per ottenere la cittadinanza: «I due importantissimi documenti da presentare erano il certificato di nascita e il certificato penale, approvati e tradotti in italiano dall’ambasciata italiana in Nigeria. Ho due genitori abbastanza grandi, mio padre ha più di 80 anni, non potevo dare loro l’incarico di spostarsi nella capitale per andare negli uffici. Così mi sono rivolta a un’agenzia specializzata».
Costi esagerati
Le tappe di questa peripezia, accaduta in una situazione fortunatamente non emergenziale, non erano finite: «La mia pratica è stata bocciata per tre volte e ogni volta ho dovuto pagare l’agenzia. Solo per questi due documenti sono arrivata a spendere quasi 1.600 euro. Ho quasi rinunciato di nuovo per la seconda volta, con l’angoscia di vedere ancora respinta la domanda. Mi sembrava assurdo che questo potesse accadere dopo 19 anni di matrimonio vissuti in Italia. Proprio mio marito mi ha convinta a non mollare».

Avvocati… ma non troppo
Anche perché, nel suo caso, in teoria le cose potevano essere molto più rapide. Al netto della rinuncia volontaria iniziale da parte di Edith, va ricordato che avrebbe avuto il diritto di richiederla dopo due anni di matrimonio nel nostro Paese, con l’aggiunta di un “dettaglio” tutt’altro che trascurabile: «Non ho avviato la richiesta al momento giusto anche per un aspetto economico, consultando delle amiche al nord, c’era un avvocato che ha chiesto 6mila euro. Ma io non stavo comprando la cittadinanza. E non mi è parso corretto pagare questa cifra. Io mi sentivo già italiana, non è un pezzo di carta che me lo dimostra: mio marito e mio figlio sono italiani!».
La situazione si sblocca
Dopo ulteriore tempo, l’agenzia nigeriana è riuscita a sbloccare la pratica ed Edith aveva con sé i documenti necessari. Ma siamo al 2023: «Due anni di stress, nervosismo e soldi!». Con la documentazione in tasca, Edith avvia la pratica tramite un patronato del luogo e dopo altri 8 mesi il riconoscimento della cittadinanza italiana è arrivato, siamo nel 2024. Da quel primo anno di volontariato sono circa 25 anni.
Non è solo un documento
Arriviamo all’oggi, con il referendum dell’8 e il 9 giugno, in cui tutta l’associazione Don Bosco 2000 è schierata per il sì. Lo ha detto a chiare lettere Agostino Sella: «La cittadinanza non è solo un documento, è appartenenza a una comunità, è partecipazione, è condivisione di diritti e doveri. Chi vive, lavora, cresce, studia e costruisce ogni giorno questo Paese non può essere considerato un cittadino di serie B», dice il presidente, avendo a mente anche la storia di Edith.
Teoria e realtà
È ancora lei, grazie alla sua attività di avviamento al lavoro, a voler puntualizzare: «La cosa che dà fastidio è che in realtà non basteranno nemmeno i cinque anni di residenza per avviare le pratiche per la cittadinanza». Edith ricorda le altre condizioni necessarie per richiederla, quali l’assenza di precedenti penali nel proprio Paese d’origine e Italia, la conoscenza dell’italiano a livello B1 e un certo livello di reddito.
Questioni di reddito minimo
La partita si gioca su quest’ultimo punto: «Una persona senza un lavoro stabile non potrebbe mai diventare un italiana, anche se vi risiede da vent’anni ed è integrata nella società. I ragazzi che lavorano presso le aziende agricole con contratti stagionali rischiano di non raggiungere mai il reddito annuo minimo (8.263,31 euro per le persone singole, ndr). Nel mio lavoro, vedo molti ragazzi che non possono chiedere la cittadinanza perché non arrivano al reddito richiesto. E non ci arriveranno mai, nonostante abbiamo svolto dei percorsi di integrazione importanti e i loro figli siano nati in Italia».
Requisiti da rivedere
È soprattutto per questi ragazzi e per le loro famiglie che bisognerebbe cambiare questi requisiti, impostando diversamente il tema della cittadinanza. In questa prospettiva, il tema dei cinque anni è solo un tassello, aggiunge Edith: «Bisognerebbe che le persone fossero valutate singolarmente, chi dimostra di lavorare continuativamente da dieci anni, o si spera, dopo il referendum, da cinque, ad esempio come bracciante agricolo, dovrebbe essere agevolato e non ostacolato o addirittura impedito nel suo percorso di integrazione. Anche perché nelle grandi città, dalla richiesta di cittadinanza possono passare molti mesi, se non anni. Nel mio caso, vivendo in una piccola provincia il riconoscimento è avvenuto in relativamente poco tempo».
Un grande significato
Diventare “ufficialmente” italiana ha significato molto anche per lei: «Era quel piccolo pezzo che mi mancava per completare il mio percorso di integrazione e per avere più diritti: da italiana puoi muoverti liberamente nell’Ue come tutti gli altri. E poi per votare: l’8 o il 9 giugno, io andrò a votare per la prima volta! Per me è importantissimo potermi esprimere, con il mio voto, da immigrata diventata cittadina italiana».
Foto in apertura dall’ufficio stampa Don Bosco 2000: Edith diventa cittadina italiana dopo 25 anni nel nostro Paese.
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