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Giornata internazionale della donna

Scuola, perché troppe donne sono un problema

Viva le donne, ma non è ora di dirci che è un problema il fatto che la scuola rosa per l'81,5% dei docenti? Fra chi lavora con i bambini più piccoli, la presenza femminile arriva al 99%. Insistiamo tanto sull'avvicinare le ragazze alle Stem ma a scienze dell'educazione i maschi sono appena il 5%. Perché così non va? In dialogo con Francesca Gennai, presidente delle cooperative sociali trentine

di Sara De Carli

maestre asilo

Nella scuola dell’infanzia oltre il 99% di docenti di ruolo sono donne. Alla primaria le donne sono il 96%. Alle superiori le professoresse sono i due terzi dei docenti. La lingua italiana vuole l’uso del maschile “universale”, ma quando si parla di insegnanti la realtà dei fatti ci permetterebbe di utilizzare quasi solo il femminile: sono donne l’81,5% dei docenti che insegnano nelle scuole italiane. In occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, Tuttoscuola pubblica un dossier sui numeri della presenza femminile nella scuola italiana: nessuna sorpresa, ma vedere i numeri fa sempre una certa impressione. Le province meno rosa d’Italia sono Agrigento (75,9%), Enna (76,7%) e Verbano-Cusio-Ossola (77,1%): segno che qui l’insegnamento è più attrattivo anche per gli uomini.

Nel suo nuovo libro, Ragazze col portafogli. Una pedagogia dell’emancipazione femminile, Anna Granata, professoressa di Pedagogia alla Bicocca, (l’abbiamo intervistata qui) scrive che «per chi arriva all’università, la dimensione del genere è spesso determinante nella scelta: se abbiamo solo il 22% di ragazze che scelgono percorsi di studi in area scientifica, ancor più forte è la femminilizzazione dei corsi di studi nelle scienze dell’educazione, percorsi in cui la presenza maschile non supera il 5%». Ora, perché investiamo tanto – giustamente – nell’avvicinare le ragazze alle Stem e non facciamo nulla per far sì che più uomini si avvicinino alle professioni educative? Perché questo, in fondo, ci va bene così?

Non ci sta Francesca Gennai, sociologa, presidente della cooperativa sociale La Coccinella e presidente di Consolida, il consorzio delle cooperative sociali del Trentino. «Abbiamo bisogno di modelli educativi complementari. Ne hanno bisogno i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze ma ne hanno bisogno anche le nostre organizzazioni». Da due anni nei servizi per la prima infanzia della sua cooperativa lavorano due educatori uomini e un pedagogista uomo, under30.

Francesca Gennai, presidente Consolida

«Nelle selezioni io ho fatto questa scelta. Sto iniziando a “discriminare” all’incontrario, cercando di inserire nei servizi degli uomini e trovando in questo un valore. Parlare di quote azzurre non mi piace, le quote eticamente non mi hanno mai convinta, talvolta per le donne – che ancora sono chiamate in qualche modo a giustificare la loro presenza nei CdA – è stato bruttissimo presentarsi con l’etichetta della “quota rosa”. È squalificante essere presi non per la competenza ma perché si è una “quota”. Ciò detto in questo momento mi sembra prioritario puntare su quello che si può guadagnare come linguaggio offerto ai bambini e alle bambine e come esempio di possibilità offerto. Per cui, sì alle quote azzurre. In Svezia qualche anno fa diedero delle borse di studio agli uomini che si iscrivevano a scienze della formazione, mentre in Italia non abbiamo ancora pensato ad azioni positive in questo senso».

Nelle selezioni io sto cercando di inserire nei servizi degli uomini e trovo in questo un valore. In questo momento mi sembra prioritario puntare su quello che si può guadagnare come esempio di possibilità offerto

Francesca Gennai

Maestre a quota 99%: i dati sono questi anche nel mondo educativo in generale, non solo nella scuola?

Sì, certo. L’educatore uomo è sempre una quota residuale e una delle motivazioni è che si tratta di professioni poco pagate, che non consentono il sostentamento di una famiglia e quindi non scelte dagli uomini. Nel modello tradizionale, che vede l’uomo come breadwinner, un uomo non sceglie queste professioni. Questo però è un cane che si morde la coda: io sono convinta che una delle ragioni per cui in Italia si investe poco nell’istruzione rispetto agli altri paesi europei – la spesa pubblica per istruzione rappresenta il 4,1% del Pil, a fronte di una media Ue del 4,9% – è proprio perché si considera l’educazione un lavoro da donne. Le donne si sono sempre occupate dell’educazione e della cura nelle loro famiglie e a un certo punto invece di continuare a farlo solo in casa hanno iniziato a farlo in un luogo pubblico. Ma quando una professione è eccessivamente femminilizzata, quando non c’è un bilanciamento di presenze, questa perde di risorse, di investimenti e di riconoscimento sociale: voglio dire, per gli uomini è normale chiedere avanzamenti di carriera e stipendi più alti, per le donne no. A scuola così il maestro era stimato e riconosciuto, la maestra invece non ha mai avuto quel grado di rispetto.

Quando una professione è eccessivamente femminilizzata, , questa perde di risorse, di investimenti e di riconoscimento sociale: per gli uomini è normale chiedere avanzamenti di carriera e stipendi più alti, per le donne no

Perché sono così pochi i ragazzi interessati alle professioni di educative e di cura, oltre che per gli stipendi e la possibilità di carriera?

Perché nessuno di noi può diventare ciò che non ha mai visto. Se non lo vedo, non mi viene in mente che posso esserlo, non penso sia una cosa per me. Gli squilibri di genere in qualsiasi professione rafforzano ulteriormente la presenza del genere “dominante”. Le quote rosa sono nate in politica per dimostrare ad altre donne che anche la politica poteva essere un percorso accessibile e possibile. Ecco, la presenza di uomini nei contesti educativi trasmetterebbe ai bambini e alle bambine un messaggio importante su cosa un uomo può diventare rompendo molti stereotipi su cosa è una professione da donne e cosa è una professione da uomini. Devo dire anche che molti di questi stereotipi e falsi miti sono alimentati anche da noi donne: come scriveva Simone de Beauvoir siamo “per metà vittime, per metà complici, come tutti”.

Perché per bambine e bambini, ragazzi e ragazze è un problema il fatto che la quasi totalità delle figure educative sia donna?

Malaguzzi scriveva che per crescere i bambini e le bambine hanno bisogno di cento linguaggi. E sappiamo benissimo – oggi più che mai – che il linguaggio non è neutro, che le parole danno forma e senso alla realtà. Per questo una più equa rappresentanza di genere nell’educazione è necessaria: per non sottrarre ai bambini e alle bambine la possibilità di misurarsi sin da piccoli sia con il codice femminile che quello maschile. Se tu hai solo un codice di riferimento, non hai la possibilità di un confronto con un altro codice e di un allenamento in termini di dialettica, di postura, di atteggiamento. C’è un appiattimento. Non dai ai bambini la possibilità di allenarsi all’altro e all’altra.

Nessuno di noi può diventare ciò che non ha mai visto. Se non lo vedo, non mi viene in mente che possa essere una cosa per me

I nostri figli da settembre a giugno passano la maggior parte del tempo unicamente con il femminile e spesso, vista la frammentarietà della famiglia oggi, anche fuori dalla scuola lo scambio con la figura maschile è povero di tempo. In questo scenario, chi trasferisce ai bambini modello di integrazione dei generi e della uguaglianza dei generi? Dove vedono dei contesti equilibrati in termini di genere? I bambini assorbono dei modelli di separazione, è indifferente ai fini di questo ragionamento se la il contesto è a prevalenza maschile o femminile: assorbo il modello della separatezza e della conformità di genere e quindi lo riporteranno. Perpetueranno il fatto che ci sono giochi per bambine e per bambini, lavori da maschio e lavori da femmina, comportamenti appropriati ai maschi e comportamenti appropriati alle femmine. Se ci aggiungiamo anche il fatto che il corpo educativo e insegnante oggi non ha una formazione sul genere, dobbiamo ammettere che siamo completamente sguarniti da questo punto di vista.

Che vantaggio c’è per un bambino, dal punto di vista pedagogico e educativo, ad avere anche un maestro maschio, fin da piccolissimo?

Innanzitutto avrà una pluralità di codici educativi. Si misura fisicamente con qualcosa di più vicino o più lontano da lui. Impara che da grande può fare anche quel lavoro. Impara che anche un uomo può prendersi cura e che la cura non è solo affare delle donne.

In questo scenario, i bambini dove vedono dei contesti equilibrati in termini di genere? I bambini assorbono modelli di separatezza e di conformità di genere e quindi li riporteranno

Che cambiamento si genera nelle organizzazioni e negli ambienti di lavoro?

Questa è una sfida importante. Io credo che sia un punto di caduta per il futuro quello di avere organizzazioni che tengono dentro motivazioni diverse, mentre oggi nelle nostre realtà che si occupano di educazione abbiamo dentro motivazioni molto omogenee e spesso – diciamocelo – non legate alla passione per il lavoro ma all’altro elemento che influenza questa scelta professionale, che è la possibilità di conciliazione. Anche qui, come se la conciliazione riguardasse solo le donne. Di fatto così, nelle nostre organizzazioni non siamo sfidati dal fatto che gli uomini chiedono avanzamenti di carriera e stipendi più alti: siamo poco sfidati a livello imprenditoriale.

Un punto di caduta per il futuro è quello di avere organizzazioni che tengono dentro motivazioni diverse, mentre oggi nelle nostre realtà che si occupano di educazione abbiamo motivazioni molto omogenee e spesso – diciamocelo – legate alla conciliazione

Noi come cooperativa ci stiamo atterzando, abbiamo due educatori uomini nei servizi 03 anni e un pedagogista uomo under30: sono persone molto preziose. Lorenzo per esempio, il pedagogista, ci sta aiutando tantissimo nel misurandoci con le nuove famiglie: abbiamo bisogno di avere persone che le nuove famiglie possano vivaere come coetanei, senza eccessivi gap di età e di linguaggio. I giovani papà, che hanno una nuova idea di paternità rispetto al passato, sono felici di confrontarsi con una figura professionale maschile. In generale, l’esprienza e le ricerche dimostrano che i gruppi di lavoro intergenerazionali e di intergenere sono i più fruttuosi: si riaccende il dibattito, il pensiero è meno omologato: pensa a come cambiano i discorsi nelle pause. Creare contesti divergenti e plurimi serve ad arricchire la dialettica e i nostri, ricordiamolo, sono luoghi in cui si cresce per dialettica. Sì, io sto iniziando a discriminare, cercando di inserire nei servizi uomini e trovando in questo un valore.

È un pensiero che sta cominciando a farsi strada o un’eccezione?

Sta iniziando a farsi molta strada, anche perché sta cambiando la genitorialità e sarà più facile che in passato introdurre nei servizi delle figure maschili, soprattutto nella primissima infanzia. Le nuove generazioni di genitori sono molto più disponibili e anzi lo cercano con favore.

foto Pexels


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