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Education & Scuola

Scuola, un luogo per costruire uguaglianze

Una possibile interpretazione dei risultati dei test Invalsi per cambiare la scuola. Oggi è necessario che chi ha a cuore l’educazione dei giovani ripensi la scuola e, soprattutto, la sua funzione educativa, cercando di trasformarla da luogo di riproduzione delle disuguaglianze e degli svantaggi a luogo di costruzione di uguaglianze.

di Gianmarco Proietti

Alle prove 2022 dell’Istituto Nazionale Invalsi per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, hanno partecipato complessivamente circa 2.418.000 studenti, di cui 920 mila della primaria, 545 mila della secondaria di primo grado e 953mila della secondaria di secondo grado.

Le risposte dei test raccolgono una complessità di dati che occorre proteggere per garantire effettivamente riservatezza e soprattutto per non trasformare la scuola in una testificio a servizio di aziende e università a numero chiuso.

I risultati del 2022 mostrano che il 48% degli studenti della scuola secondaria di secondo grado non ha raggiunto un livello adeguato nella valutazione della prova di Italiano, mentre in Matematica il 50% ha raggiunto competenze solo basilari. Ancora più allarmanti le competenze per la lingua straniera: il 52% raggiunge un livello B2 reading e solo il 38% nel listening.

A livello regionale gli allievi che non raggiungono il livello base in italiano sono il 60% in Campania, Calabria e Sicilia, in altre quattro regioni (Campania, Calabria, Sardegna e Sicilia) il 70% degli studenti non ha competenze base di Matematica. Stesse percentuali, o quasi, si registrano nella scuola secondaria di primo grado.

La scuola primaria mostra invece un panorama differente dove 3 allievi su 4 registrano un livello base sia in Italiano che in Matematica.

Mentre si stanno realizzando le prove 2023, occorre fare alcune considerazioni sul senso profondo dei risultati di tali misurazioni

La prima è che le Prove INVALSI e altre misurazioni internazionali, come le indagini OCSE PISA e IEA TIMMS, misurano i livelli di competenze degli studenti. Sembrerebbe una considerazione banale se sapessimo rispondere alla domanda se e dove, nella scuola italiana, si realizza una vera didattica per competenze.

Se l’Unione Europea definisce le competenze chiave come costituenti un bagaglio trasferibile e polivalente di conoscenze, di saper-fare e di disposizioni, che sono necessarie alla completezza e sviluppo personale, all'inclusione nella vita sociale e civile e all'impiego di ognuno, si suppone che esse siano acquisite alla fine del periodo di scolarità o di formazione obbligatoria e che costituiscano il fondamento dell'educazione e della formazione lungo tutta la vita.

In una “didattica per competenze” il processo di apprendimento innescato nel periodo di formazione, diviene inseparabile dal contesto fisico (anche virtuale), sociale e culturale in cui avviene, per cui è inderogabilmente attivato da una comunità di apprendimento che sostiene l’interpretazione, la condivisione, la trasformazione e la costruzione della conoscenza. Risulta dunque così più chiara proprio la definizione di Competenza data da M. Pellerey[1], cioè la manifestazione della mobilitazione di risorse interne (“conoscenze, abilità e disposizioni stabili”) e di risorse esterne (“persone, strumenti, materiali”). Quando dunque si parla di comunità educanti come pure del cambio di ruolo dell’educatore da “erogatore di conoscenza” a mediatore, si ha in mente proprio il cambio di paradigma che la scuola italiana fatica a far proprio, inserito quindi in una cornice pedagogica socio-costruttivista che ne diviene il modello di riferimento.

Mentre tale impostazione è ormai ampiamente diffusa nella scuola primaria, fatica radicalmente ad incarnarsi nella scuola secondaria dove le nostalgie acritiche della “scuola di una volta”, si manifestano nelle interminabili lezioni frontali secondo un metodo didattico statico e uguale per tutti (metodo che sarcasticamente può essere chiamato: A.L.E.R.T. stai in guardia: Ascolta, Leggi e Ripeti Tante volte), senza tener conto degli stili di apprendimento e cioè della soggettività degli studenti, centralità di quella comunità appena definita. Molti docenti e dirigenti scolastici mostrano palesemente, spesso senza una argomentazione chiara, la volontà di non cambiare approccio didattico avente sullo sfondo la tranquillizzante esigenza del controllo e la trasmissione lineare delle conoscenze. Certamente il sistema di valutazione attuale governato dalla compilazione della pagella, contribuisce decisamente a stabilizzare tale volontà. Ogni docente di scuola secondaria sa bene come risulta arbitraria, molto spesso, la compilazione del documento di valutazione delle competenze acquisite al termine dell’obbligo scolastico e come esso sia decifrato a partire dai voti in pagella, attribuiti per materie valutate esclusivamente per conoscenze. Le prove Invalsi, dunque, sembrano indagare obiettivi non perseguiti nella didattica ordinaria dalle scuole italiane. I risultati che si ottengono sottolineano tale discostamento, meno evidente nella scuola primaria, che come detto, ha da tempo fatto proprio l’approccio per competenze.

Il test, dunque, invece di sottolineare demeriti o addirittura colpe degli insegnanti italiani, potrebbe essere uno strumento ottimo per indirizzare le attività future della scuola, riorganizzando effettivamente una didattica che, sotto la guida delle indicazioni nazionali, superi definitivamente i modelli comportamentista e cognitivista che, forse inconsapevolmente, sono ancora dominanti negli istituti scolastici. Inoltre, invece di essere letti come una valutazione degli apprendimenti, essi dovrebbero essere considerati come la base sulla quale costruire una riformulazione di tutto il sistema docimologico della scuola.

Evidentemente è indispensabile organizzare una attenta formazione del corpo docente e dei dirigenti scolastici, azione imprescindibile per un cambiamento necessario proprio per dare senso ai risultati delle prove, se la scuola diverrà, finalmente, il fulcro delle politiche programmatorie del paese.

Da questo punto di vista occorre una valutazione anche di quelli che vengono chiamati Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. Senza entrare troppo nel dettaglio, non può essere il mondo del lavoro che orienta la scuola, come erroneamente è stato fatto in tutti questi anni, ma esattamente il contrario, cioè la scuola ma anche la Formazione Professionale, con tutte le sue potenzialità educative, dovrebbe governare il mondo del lavoro, proprio leggendo e reinterpretando la quotidianità e immaginando il paese del domani.

Un’altra considerazione fondamentale da fare nel leggere i risultati delle prove Invalsi, è l’allarme descritto è stato motivato dai cosiddetti risultati assoluti: essi descrivono i livelli raggiunti ma non ci dicono nulla riguardo la situazione di partenza dei ragazzi e delle ragazze.

Proprio per quanto detto sulla natura delle competenze, quella mobilitazione di risorse interne e di risorse esterne, la comunità di riferimento di ogni singolo studente diviene elemento fondamentale per la costruzione di ogni singola competenza. Ed è lo stesso istituto Invalsi che tenta di misurare l’influenza delle caratteristiche sociali, culturali ed economiche dei ragazzi e delle ragazze, che hanno un marcato effetto sui livelli di apprendimento conseguiti già dai primi anni di scuola. L’invalsi ha infatti elaborato un indice ESCS (Economic, Social and Cultural Status). L’indicatore ESCS si compone di tre elementi che valutano diversi aspetti delle condizioni socio-economiche e culturali: lo status occupazionale dei genitori, il livello d’istruzione dei genitori espresso in anni d’istruzione formale seguita calcolati secondo standard internazionali, il possesso di alcuni beni materiali intesi come variabili di prossimità di un contesto economico-culturale favorevole all’apprendimento.

I dati per calcolare l’ESCS vengono raccolti attraverso un questionario apposito, somministrato ai ragazzi durante lo svolgimento delle prove, mentre ulteriori dati vengono forniti dalle segreterie scolastiche.

I risultati delle prove, correlati ai valori dell’indice ESCS, mostrano una realtà che, proprio per quanto detto delle competenze, è radicalmente incarnata nel contesto. Come ha evidenziato Save The Children su Vita on Line a giugno 2022 (https://www.vita.it/it/article/2022/05/25/scuola-la-polemica-sui-dati-non-cancella-le-disuguaglianze/162965/) i risultati delle prove sono peggiori in casi di punteggi di indice ESCS bassi. La povertà economica e sociale sia della famiglia che del contesto di riferimento (quartieri, comuni, regioni) incide notevolmente nell’apprendimento delle competenze. Tutto ciò non stupisce avendo davvero chiaro cosa sia la didattica per competenze, anzi, conferma la bontà e la correttezza del test che altresì fotografa in modo disarmante e decisamente dirompente un’Italia divisa in due, con un Sud popolato da studenti e studentesse ai quali è negato il diritto fondamentale ad un’istruzione e ad un’educazione di qualità. Ne emerge un’immagine di una scuola secondaria di primo e di secondo grado radicalmente conservatrice, affossata su didattiche puramente trasmissive, incapace di costruire competenze in modo differenziato attorno allo studente assecondando i personali stili di apprendimento ma soprattutto incapace di leggere i risultati del test andando oltre le dinamiche inquisitorie alla ricerca di un colpevole passato.

Il cambiamento che i risultati dei test invece sottendono è urgente perché la scuola diviene, nella sua inedia, non solo spettatrice passiva della diseguaglianza, ma, volente o nolente, costruttrice della stessa. Il fenomeno infatti che è emerso dopo la pandemia e che è stato latente da tempo, è quello della dispersione implicita, cioè quella quota non trascurabile di studenti che conseguono il diploma ma non raggiungono nemmeno lontanamente i livelli di competenza che ci si dovrebbe aspettare dopo tredici anni di scuola.

I dati che emergono dai risultati delle prove, correlati con gli indici ESCS, se inquadrati attraverso l’indice GINI (come ha fatto OpenPolis – con i bambini), il così detto indice della disuguaglianza, cioè della distribuzione equa delle ricchezze, dimostrano che la scuola italiana non appare in grado, se non per una piccola minoranza, di garantire non solo l'emancipazione ma addirittura il successo al proprio interno agli studenti che provengono da famiglie socialmente ed economicamente più deprivate e svantaggiate.

La selettività scolastica, così agognata da una retorica del merito, è costituita da tutti quegli sbarramenti che caratterizzano il percorso e che vanno dagli esami e dalle bocciature all’orientamento degli studenti verso istituti scolastici, o anche solo classi, a cui è attribuito un minore prestigio sociale.

Il basso livello socio economico e culturale della famiglia e del contesto sociale influisce negativamente sulla riuscita scolastica per l’assenza nei genitori sia di alti livelli di aspirazione nei confronti dei figli sia della capacità di fornire adeguati stimoli culturali necessari alla prosecuzione degli studi.

Ciò che emerge con chiarezza è come la scuola non abbia quel potere “trasformativo” della società che gli dovrebbe competere. Ed è dunque provato che la retorica del merito, se incarnata in un sistema scolastico disancorato dal territorio e animato da dinamiche esclusivamente competitive, altro non è se non il mantenimento delle disuguaglianze del paese. Proprio la Costituzione infatti, nell’art. 34, impone che “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, ma non può esserci merito senza quell’uguaglianza formale e sostanziale garantita dall’art. 3, come pure, senza uguaglianza, la democrazia stessa, cioè la concreta possibilità di lavoro, di giusta retribuzione, di studio e di partecipazione, verrebbe e viene messa in discussione. E la scuola è uno di quei mezzi, anzi forse il mezzo preferenziale, che ha la Repubblica per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese

Oggi è necessario che chi ha a cuore l’educazione dei giovani ripensi la scuola e, soprattutto, la sua funzione educativa, cercando di trasformarla da luogo di riproduzione delle disuguaglianze e degli svantaggi a luogo di costruzione di uguaglianze.

I test Invalsi, in modo anche violento, continuano a fotografare la situazione. Da quella fotografia occorre partire per costruire con coraggio una risposta che guardi al futuro delle nuove generazioni fronteggiando le dinamiche dell’esclusione sociale.

Se è vero che per educare un bambino occorre un intero villaggio, è necessario costruire patti educativi di comunità e aprire le scuole e i percorsi educativi ad un lavoro congiunto con tutte le istituzioni locali, le organizzazioni civili, le associazioni, per affidare alla scuola quel potere trasformativo della società che oggi le manca, al fine di sottrarre gli studenti e le studentesse alla condanna della disuguaglianza.


[1] M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Roma, La Nuova Italia, 2004


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