Scuola

«Senza i ragazzi che mi mettono alla prova non saprei più stare: ecco perché non vedo l’ora che suoni la campanella»

In classe capita di urlare fino a perdere la voce, contrattare le uscite per andare in bagno, parlare ad alunni che stanno sempre di spalle: ma in quelle sfide c'è una richiesta di essere visti e di rimanere, nonostante tutto. Ed è questo che rende unico il mestiere dell'insegnante. La testimonianza appassionata di una prof di scuola secondaria di primo grado - e collaboratrice di VITA - che aspetta con impazienza il primo giorno di scuola

di Rossana Certini

ragazzi fuori da scuola

«Manca poco, chissà come saranno?». Me lo chiedo da sabato 30 agosto alle 13.04, cioè dall’ora esatta in cui ho ricevuto le cinque righe con cui l’Ufficio scolastico di Padova mi ha comunicato la nomina per una supplenza per l’anno scolastico 2025-2026.

Pochi giorni ancora e la prima campanella di questo nuovo anno scolastico suonerà e mi ritroverò ferma, per un istante, sulla soglia della porta dell’aula. I ragazzi, di sicuro intenti a fare altro, si bloccheranno, alzeranno lo sguardo e mi guarderanno. Ci sarà un attimo di silenzio, quasi impercettibile, in cui so che si chiederanno: «E questa chi è?»
. E io, in quello stesso istante, cercherò di cogliere ogni tratto dei loro volti, ogni sfumatura del loro carattere per non farmi trovare impreparata quando, da dietro la cattedra, dopo un «buongiorno ragazzi», inizierò, con l’appello, il mio primo giorno di lezione nella scuola secondaria di primo grado che quest’anno mi è stata assegnata, a 50 chilometri da casa.

Loro non lo sanno, ma nell’attesa di conoscerli ho già provato a immaginarli. Ho cercato di prepararmi, come si fa prima di un incontro importante. Perché ogni insegnante lo sa: entrare in aula è, ogni volta, una sfida. Come su un ring, da una parte ci sono loro, gli studenti, con il compito atavico di mettere alla prova chi hanno di fronte, di cercarne il punto debole e trasformarlo in un trofeo per tutto l’anno. Dall’altra ci sei tu, l’adulto, l’insegnante che deve trovare il modo di esserci senza esporsi del tutto, di farsi conoscere senza farsi cogliere scoperto.

«Quando entri in classe, immagina di salire su un palcoscenico. Devi recitare la tua parte da insegnante», mi diceva la docente che mi ha fatto da tutor durante il tirocinio per l’abilitazione all’insegnamento. In quel “recitare” non c’è nulla di finto. Nessuna maschera. Solo la consapevolezza che serve equilibrio. Serve saper dosare fermezza ed empatia, presenza e distanza.

Sapere, saper fare, saper essere: le tre competenze essenziali del docente

Essere docente oggi significa abitare contemporaneamente più dimensioni. Serve prima di tutto il sapere, cioè una conoscenza solida della disciplina, base indispensabile per un insegnamento efficace. Ma è fondamentale anche il saper fare: padroneggiare strategie didattiche, adattarle al contesto, agli studenti e ai loro bisogni. Infine, c’è il saper essere: saper ascoltare, entrare in relazione, cogliere fragilità e gestire le dinamiche del gruppo. Perché senza empatia, neanche la lezione meglio progettata può davvero lasciare il segno.

Quando si entra in aula, non si entra mai in uno spazio neutro. Ogni studente porta con sé qualcosa: un pensiero, un’emozione, un pezzo di giornata già vissuta prima di varcare la soglia. In aula in 25, o anche di più, si crea inevitabilmente un microcosmo unico fatto di umori, silenzi e sguardi che si intrecciano e si influenzano. È un ambiente emotivamente in movimento, che non è mai uguale a se stesso: cambia ogni giorno, anche se l’insegnante è sempre lo stesso.

Gli studenti ti sfidano e ti chiedono di restare autentica

Ed è proprio questo che rende l’insegnamento così vivo, così complesso. Perché non esiste una lezione uguale a un’altra. Ogni classe ti chiede, spesso senza dirlo, di metterti in discussione, di cercare nuove strade, di trovare sempre il modo giusto per far arrivare quel concetto, quella spiegazione e quella parola a tutti. Anche nelle situazioni più difficili gli studenti ti costringono, a modo loro, a guardarti dentro, restare in ascolto e crescere con loro. Perché l’aula non è solo il luogo in cui loro imparano. È, anche, il luogo in cui tu insegnante, ogni giorno, impari e cambi un po’.

Gli studenti ti costringono a guardarti dentro, restare in ascolto e crescere con loro. Perché l’aula non è solo il luogo in cui loro imparano. È, anche, il luogo in cui tu insegnante, ogni giorno, impari e cambi un po’

Ecco perché, quando gli studenti non ci sono, mi mancano. Anche se a gennaio quasi tutti noi docenti siamo già sfiniti dal carico emotivo che questo lavoro comporta e che si aggiunge a quello burocratico, credo che nessun insegnante, almeno nessuno che ci creda davvero, riesca a immaginare un anno senza i suoi studenti.

Ci sono state classi in cui ho urlato fino a perdere la voce e la fiducia. Studenti che si voltavano di spalle o sparivano in bagno. Ho tentato ogni strada, sentendomi sconfitta. Ma è lì che capisci: quella sfida è una richiesta. Ti stanno mettendo alla prova, vogliono sapere se ci sei davvero. Magari, all’inizio, la mia risposta è stata una nota disciplinare. Ma poi è arrivato, doveroso, un confronto. Uno sguardo. Una parola. E lì inizia la vera lezione: quando capiscono che li hai “visti” e che, nonostante tutto, sei rimasta.

La scuola non è un territorio semplice. È sfibrante, è imprevedibile, non ti protegge. Non è un lavoro da scrivania. È un luogo che ti mette a nudo, ti chiede di essere e non solo di sapere. Soprattutto ti chiede di cambiare, senza smettere di essere te stessa. Ogni giorno ti obbliga a scavare nella tua parte più autentica per trovare una strada a volte invisibile e a volte improvvisata che trasformi chi hai davanti in un adulto consapevole. Un adulto che, prima ancora di imparare, sta cercando se stesso.

Il compito di un docente non è solo spiegare

Ma non finisce qui. Il compito di un docente non è solo spiegare, ma provare ad accendere qualcosa nei ragazzi. Appassionarli. All’inizio si crede che debba succedere sempre, su ogni tema e per tutti. Poi capisci che basta un attimo: un guizzo negli occhi, anche solo una volta, anche solo in uno studente.

All’inizio combatti con il tuo ego, con quel desiderio segreto di uscire da ogni lezione tra applausi immaginari e sguardi pieni di gratitudine. Poi arriva la frustrazione. Ma con il tempo impari a riconoscere segnali più sottili, più veri. Capisci che, anche se non l’hanno detto, qualcosa è passato. Forse non ricorderanno la formula, la data, il testo, ma ricorderanno l’attimo in cui si sono sentiti curiosi, vivi e coinvolti.

La scuola non è un territorio semplice. È sfibrante, è imprevedibile, non ti protegge. Non è un lavoro da scrivania. È un luogo che ti mette a nudo, ti chiede di essere e non solo di sapere

Durante l’estate, quando penso a quante variabili entrano in gioco nell’assegnazione di una cattedra – graduatorie, incastri, disponibilità improvvise – non posso negare che avverto un velo di tristezza. Perché non è affatto scontato che a settembre arrivi una supplenza.

Insegnare è molto più di un lavoro perché, anno dopo anno, diventa un modo di essere. Credo che gli insegnanti che resistono, quelli che restano curiosi, ironici, avventurosi, sono quelli che imparano a tenere insieme ogni emozione. Che sanno convivere con l’attesa, il dubbio e la speranza.

È il momento di preparare gli strumenti del mestiere…

Si ricomincia. È il momento di preparare gli strumenti del mestiere. Non solo libri, quaderni e penne, ma tutto ciò che serve per abitare davvero l’aula. Il guardaroba, gli accessori, le scarpe.

Me l’hanno insegnato i docenti più esperti: «In classe, ogni cosa può diventare strumento per agganciare l’attenzione dei tuoi studenti». La voce deve modulare toni, evitare la monotonia. I vestiti devono dire qualcosa di te. Devono essere abbastanza eccentrici da incuriosire, ma non al punto da distrarre. Le scarpe devono farsi sentire, ma con discrezione. Perché anche il suono dei tuoi passi tra i banchi può comunicare presenza. E poi gli accessori: una collana vistosa, un bracciale che fa un po’ di rumore, un foulard colorato da far girare tra le dita mentre spieghi.

Non si insegna solo con le parole, ma anche con la presenza. Quella che resta, quando tutto il resto sembra passare

Da quando ho imparato questi trucchi, ogni anno entro in aula portando con me un ricordo d’infanzia: la mia maestra delle elementari. Aveva sempre un rossetto rosso brillante sulle labbra e una collana dello stesso colore. Non ricordo con precisione tutte le sue spiegazioni ma quella collana e quel rossetto mi sono rimasti impressi da quarant’anni. E oggi so perché: in aula non si insegna solo con le parole, ma anche con la presenza. Quella che resta, quando tutto il resto sembra passare.

VITA ha dedicato un podcast a chi ha speso la vita a far emergere il desiderio di costruire il proprio destino nelle studentesse e negli studenti del nostro Paese: Maestre e maestri d’Italia. Lo ha curato Alessandro Banfi e lo puoi ascoltare qui.

In apertura, foto di Guido Calamosca/LaPresse. L’autrice del pezzo, dal gennaio 2023 è anche collaboratrice di VITA

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