Primo maggio
Si muore ogni giorno se le famiglie delle vittime vengono lasciate sole
Non ci sono anniversari che tengano quando riguardano persone care scomparse violentemente. Doveroso, quindi che alla vigilia della Festa dei Lavoratori si ricordi anche quella che è stata definita la "Strage di Casteldaccia", nella quale persero la vita cinque operai per le esalazioni di gas tossico. Un pezzo di memoria sostenuta anche dall'associazione "Familiari Vittime del Lavoro Edile"

Era uscito da casa tranquillo, quel 6 maggio di un anno fa, Ignazio Giordano. Una giornata come tante altre di lavoro da operaio della ditta Quadrifoglio che, a Casteldaccia, in provincia di Palermo, si stava occupando dei lavori di manutenzione della rete fognaria. Un subappalto da parte della Tek che si era aggiudicata l’appalto dall’Amap, l’Azienda municipalizzata di Palermo.
Aveva salutato come tutti i giorni moglie e figli, forse già pregustando il rientro a casa la sera per godersi il calore del focolare domestico. Ignazio, però, non farà più rientro a casa, come non lo faranno anche i suoi 4 colleghi (Epifanio Alsazia, Roberto Raneri, Giuseppe Miraglia e Giuseppe La Barbera), la cui vita si concluderà a causa di una fuga di acido solfidrico all’interno dell’impianto.
Quanto perdi qualcuno, mentre sta lavorando per dare il meglio alla sua famiglia, rischi di impazzire. È come se la terra ti si aprisse sotto i piedi
Monica Garofalo, presidente dell’associazione “Familiari Vittime del Lavoro Edile”.
Tra pochi giorni sarà un anno da quel tragico evento. Dodici mesi, 365 giorni di dolore quotidiano in un loop sul quale il tempo non ha alcun potere. Anche se ci convinciamo che il tempo sani tutto. No, non sana nulla, spegne le voci, sbiadisce i ricordi meno importanti, ma non ripara alcun cuore ferito a morte. Consegna all’eterno l’ennesime vittime del lavoro.
«Ma si può mai credere che una tale notizia tu la debba ricevere tramite Facebook? », pesca nei più amari e dolorosi ricordi il figlio Fabrizio, oggi 27 anni. «A noi è capitato proprio questo. L’incidente avviene alle 13 e trenta circa, almeno questo l’orario stabilito dalla Procura, mentre io ero al lavoro. Verso le 16 scorro distrattamente i social e leggo che erano morti cinque operai, un altro in gravissisme condizioni, a Casteldaccia, e la ditta era la “Quadrifoglio”. Mi assale il panico. Chiamo mio padre, ma ovviamente non mi risponde, così comincio a mobilitare tutta la famiglia mentre faccio strada perché lavoravo a Palermo.
Logico sarebbe che, in momenti del genere, fosse per prima l’azienda a prendersi cura della famiglia
«Il minimo sarebbe stato ricevere una comunicazione immediata», aggiunge amareggiato il figlio, Fabrizio Giordano, «ma, per voi capire il livello di sensibilità, basta dire che la segretaria, che aprì la porta a mia madre quando andò in azienda per capire cosa fosse successo, prima le chiese chi fosse e poi che si sarebbe informata. Tornò dopo pochi secondi ed esordì: “Signora, suo marito non c’è più”. Così, tanto che mia madre risposte: “Ma in che senso non c’è più?”. Neanche un film avrebbe ricreato questa situazione irreale. E comunque, il processo non è ancora iniziato e nessuno della “Quadrifoglio” ha mosso un dito per noi. Come se mio padre non fosse esistito, come se non avesse avuto diritti. Li aveva lui e li abbiamo anche noi».
Una famiglia distrutta non solo dalla scomparsa di un padre, ma anche dal silenzio. Un silenzio che segue la distruzione di famiglie e comunità
«Abbiamo fatto subito fronte comune attorno a nostra madre. Fortunatamante siamo tutti autonomi. Io sono il più piccolo e faccio l’infermiere, poi c’è Davide che ha 30 anni e lavora in Germania alla Volkswagen, mentre il primogenito, Gaspare, ha 33 anni ed è un tecnico di quadri elettrici. Mia madre Carmela, però, ha perso il suo punto di riferimento e nessuno le ha proposto un lavoro, un’occupazione. Non voglio fare polemiche, ma mi chiedo perchè per i familiari delle vittime di mafia c’è questa attenzione e per quelli che perdono qualcuno sul posto di lavoro affatto? Noi ogni giorno ci alziamo e sentiamo che manca qualcuno, come se ci avessero tagliato un arto. Il dolore e la solitudine che vivono famiglie come la nostra è inimmaginabile. Mancano pochi giorni all’anniversario e sarebbe bello ricevere un segnalae forte e concreto dallo Stato».

Una solitudine che grida vendetta da parte di tutti quei figli, mogli e madri per i quali non c’è più quella netta separazione tra giorno e notte perchè per loro, dopo la morte dei loro congiunti, il sole non sorge più.
Avrebbero compiuto tra poco 25 anni di matrimonio, Monica Garofalo e Giovanni Gnoffo, l’ operaio edile morto sul colpo il 19 ottobre del 2023, schiacciato da un braccio meccanico della gru, spezzatasi all’improvviso, precipitandogli addosso all’uomo. Un’altra di quelle morti che forse si sarebbero potute evitare, almeno è quello che pensano in tanti quando il tema del lavoro va a braccetto con scarse se non inesistenti misure di sicurezza. Morti che non si possono in ogni caso accettare.
«Io sapevo che per tutto il giorno mi sarei occupata io della casa e dei figli»,ricorda Monica, la voce quasi rotta dal pianto ,«ma, una volta tornato mio marito a casa, potevo rilassarmi perché si divideva tutto a metà. Con tre figli, due dei quali adolescenti, è importante sapere che hai una spalla su cui contare. Oggi ne parlo serenamente, ma io per tanto tempo, dopo la morte di Giovanni, non ho capito nulla. È vero che mi occupavo della famiglia, ma non per quel che attiene alle questioni burocratiche. Ho, quindi, dovuto fare i conti con questo mondo. Da sola. Sto, infatti lavorando sull’autonomia. Col senno di poi dico che, in quei momenti, avrei potuto firmare qualunque documento senza rendermi conto di cosa fosse. È stato devastante, anche perchè eravamo una di quelle coppie che si sceglieva ogni giorno. Non ci pesavano per nulla questi primi 25 anni di matrimonio».
Invece del vuoto la decisione di scendere in campo con un comitato che fa memoria delle vittime del lavoro
«Non potevo più stare ad ascoltare chi decideva per me, per noi», conclude Garifalo, « così, spinta e sostenuta da molti, prima tra tutti la Fillea Cgil, decido di dare vita a un comitato che è ora diventata associazione “Familiari Vittime del Lavoro Edile”. Un impegno che mi aiuta a fare strada, sapendo che non solo sola a portare avanti una battaglia volta a impedire che altre famiglie vivano il nostro stesso dramma. Il 6 maggio saremo a Casteldaccia e deporremo una targa in ricordo degli operari morti un anno fa, ma ricorderemo anche tutti gli altri che non hanno fatto più ritorno alle loro case».
Le foto sono state fornite dagli stessi intervistati. Nella foto di apertura, da sinistra: Fabrizio, Carmela, Ignazio Giordano, Davide e Gaspare
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