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Somalia, l’orrore dei centri dove si “de-occidentalizzano” i figli

Si chiamano dhaqan celis, sono una antica tradizione ma mentre un tempo erano gestiti dalle famiglie oggi sempre più spesso si presentano su Internet come campus per riavvicinare alla cultura somala le seconde generazioni troppo "occidentalizzate" di ragazze e ragazzi del paese africano nati e/o cresciuti in Europa e negli Stati Uniti. Molti genitori pagano centinaia di dollari e ci mandano i loro figli minorenni, spesso ignari che in realtà si tratta di centri dove abusi e violenze sono all'ordine del giorno. La denuncia di The Guardian e dell'Observer

di Paolo Manzo

Nimo Omer, 24enne giornalista olandese di origini somale che lavora a The Guardian, ha pubblicato lo scorso 12 marzo su The Observer uno splendido reportage che speriamo sia destinato ad aprire un dibattito anche in Italia. Per otto mesi Nimo ha indagato sui cosiddetti “dhaqan celis“, ovvero campi di “riabilitazione culturale” dove adolescenti europei, britannici e statunitensi, vengono inviati, spesso con l’inganno, dalle loro famiglie perché troppo “occidentalizzati”.

I dhaqan celis sono nati quando i figli dei rifugiati fuggiti dalla guerra civile di inizio anni ’90 sono diventati adolescenti e sono strutture destinate ai somali nati e/o cresciuti nei Paesi occidentali, che pretendono di fornire loro un’educazione rigorosa sul loro patrimonio e sulla loro fede. I giovani sono inviati dalla famiglia, spesso dai genitori, che ritengono che i loro figli siano in mani migliori all’estero che in Occidente.

La pratica del dhaqan celis è in realtà un fenomeno antico ma in passato si riferiva alle famiglie che mandavano i figli a stare con i parenti in Somalia durante l’estate, spesso costringendoli a matrimoni forzati, come denunciava The Guardian già 5 anni fa. Negli ultimi anni, però, a ricevere i minorenni sono centri che offrono un’esperienza tipo campus ma sovente sono tutt’altro. I genitori pagano tra l’altro centinaia di dollari perché i loro figli imparino a conoscere le loro radici, la loro fede e le virtù della disciplina. In realtà i giovani contattati da Nimo passano quasi tutta la mattina a leggere il Corano, con una breve pausa nel pomeriggio, e poi continuavano a leggere fino a sera. Inoltre, ai residenti non è permesso lasciare la struttura, né raccontare ai genitori ciò che sta accade all’interno. Che è tutt’altra cosa rispetto a quanto pubblicizzato su Facebook e Google.

Nimo racconta infatti storie dolorose nel suo reportage investigativo, tra cui quella di Fadumo, una sedicenne britannica con un rapporto difficile con la madre, che invece di portarla in vacanza dalla famiglia somala come promesso la consegna in un dhaqan celis circondato da filo spinato, con alti cancelli sorvegliati da uomini armati e, una volta dentro le dice: «Qui è dove starai. Inshallah, diventerai una persona migliore». La sedicenne è stata rinchiusa per tre mesi nell’istituto al-Xarameyn di Mogadiscio, con ragazze provenienti da Regno Unito, Europa e Nord America e, alla fine, è uscita solo per l’intervento di un parente in Somalia, contrario alla scelta fatta dalla madre. Privata del suo cellulare per evitare ogni contatto con l’esterno, Fadumo veniva bastonata ogni volta che si svegliava tardi o recitava in modo errato il Corano. È stata legata con catene, ha perso peso e la sua salute mentale è degenerata. «Il mio corpo era dissociato dalla mia mente, come se questa persona non fossi io», ha raccontato Fadumo, un nome di fantasia per tutelarla, oggi tornata libera nel Regno Unito.

Anche molti ragazzi sono passati per questo inferno. Nimo ha intervistato due somali statunitensi, spediti a fare la “riabilitazione culturale” quando le loro famiglie hanno scoperto che erano gay, anche qui con l’inganno di una vacanza. L’ambasciata americana a Nairobi ha detto alla giornalista di The Guardian e dell’Observer di aver già aiutato circa 300 suoi cittadini in Somalia e Kenya, trattenuti in “strutture senza licenza” contro la loro volontà. La maggior parte sono a Mogadiscio e secondo Guleid Jama, un avvocato somalo per i diritti umani, sono centinaia i cittadini statunitensi ed europei ancora oggi intrappolati in questi che lui definisce «centri di detenzione». Luoghi a volte letali, come per il 17enne Ammar Abdirahman, deceduto in un “istituto” nello stato somalo del Puntland, nel 2014. La famiglia voleva allontanarlo dalle gang di Minneapolis e fargli conoscere la loro cultura ma ora denuncia, autopsia e foto alla mano, che è stato torturato e ucciso.

Anche se Nimo ha il grande merito di averlo portato alla ribalta oggi, questo fenomeno è noto alla diaspora somala da tempo. Sei anni fa sul quotidiano norvegese Dagsavisen, la 43enne attivista somalo-norvegese Kadra Yusuf ne aveva scritto. Premiata nel 2000 con il Fritt Ord Award per il suo sostegno alla libertà di espressione per le sue inchieste sulla mutilazione genitale femminile nella sua comunità, Kadra denunciava che «la riabilitazione culturale si basa molto su ciò che vogliono i genitori e nulla su ciò che vogliono i ragazzi”. Kadra dava una descrizione puntuale del perché i genitori somali mandavano i figli tra i 12 e i 16 anni a Mogadiscio a “riabilitarsi”. «Non riescono più a sopportare che rispondano male e non diano retta. Hanno la sensazione di perdere il controllo, cosa che per molti è inaudita. ‘Tu sei mio figlio. Vivo in questo paese freddo e ventoso perché tu possa avere una vita migliore e perché tu possa prenderti cura di tutti i parenti che mi assillano ogni giorno per mandare soldi a casa’, pensano. ‘Dove sei stato?’, chiedono per la millesima volta. ‘Ho avuto paura per te’. Ma il ragazzino era stato solo a casa di amici e aveva dimenticato di rispondere al cellulare. Pensi al peggio. Un’orgia, forse? Perché è questo che fanno tutti i giovani norvegesi. Sesso e alcol. La vergogna è insopportabile. È allora che si pensa: devo mandato in Somalia per imparare il rispetto ma non vi rendete conto che ciò che per voi è casa, è completamente estraneo a loro. La decisione è presa. Vostro figlio deve andare in un dhaqan celis a riabilitarsi. Sperate di riportare a casa un alunno modello che corra a casa ogni giorno a fare i compiti, che vi aiuti in casa e che possiate portare alla moschea il venerdì per vantarvi. Un figlio che sappia stare al suo posto e poi trovi un buon lavoro. Un medico, un avvocato, magari un politico». Invece, continua Kadra, «alcuni ragazzi vengono inseriti in istituti dove subiscono violenze e abusi, spesso all’insaputa dei genitori. Altri finiscono con parenti lontani. Alcuni perdono la fiducia nel prossimo. I traumi sono frequenti. I genitori hanno un’immagine di ciò che costituisce l’educazione nella loro cultura e credono che tale educazione possa giovare al figlio. In molti casi, entrambe le parti finiscono per rimetterci ma ad avere la peggio sono sempre i minorenni».

Questo sei anni fa in Norvegia e anche Svezia il problema esiste da tempo. Oggi Nimo ci aggiorna, grazie anche alle nuove tecnologie. Molti thread di Reddit e video su TikTok oggi mostrano infatti giovani spaventati che temono che le loro famiglie abbiano intenzione di mandarli in un dhaqan celis. «I somali più giovani sanno che essere mandati ‘a casa’ può capitare a chiunque in qualsiasi momento, e c’è poco che si possa fare. Cugini o amici di famiglia possono scomparire dopo essere stati sorpresi a bere e se qualcuno chiede dove sono la risposta è vaga: sono ad Hargeisa, o nel Puntland, o con una zia a Nairobi, o in un istituto. Sono storie che ispirano paura perché è un segreto di Pulcinella tra i somali che i dhaqan celis sono luoghi con poca o nessuna supervisione dove tutto può succedere».

«Purtroppo non esiste un quadro giuridico adeguato in materia”, spiega Nimo sulla newsletter First Edition che cura per The Guardian. «Sebbene i giovani siano quasi sempre ingannati per andare in questi centri, i casi che ho presentato non soddisfano tecnicamente la soglia legale della tratta. Le autorità keniote e somale hanno fatto irruzione in alcuni centri, ma poiché operano al di fuori della legge, vengono riaperti quasi subito altrove». Che fare, allora? «Dati i profitti, è improbabile che questi centri spariscano da soli mentre le paure culturali dei genitori richiederanno molto tempo per essere affrontate. Finché non saranno adottate leggi adeguate da parte dei governi occidentali, il problema continuerà», scrive Nimo.

VITA l’ha contattata contattato per fargli tre domande, a conclusione di questo reportage che dobbiamo soprattutto a lei.

Cosa pensi del dhaqan celis?

«Il dhaqan celis è complicato e può coinvolgere una serie di pratiche diverse. I bambini o i giovani che si recano consensualmente nel Paese di origine dei genitori e della famiglia allargata per brevi periodi possono essere un’esperienza positiva che permette loro di sviluppare un senso di appartenenza e di radicamento culturale. Tuttavia, dai miei reportage è emerso sempre più chiaramente che il dhaqan celis si basa spesso su sotterfugi, in quanto i giovani vengono sovente ingannati facendo credere loro di essere in vacanza e abusando di loro. È un fenomeno profondamente preoccupante che le autorità competenti devono affrontare con rigore».

Chi dovrebbe agire?

«La responsabilità è dei governi dei cittadini portati all’estero contro la loro volontà e delle autorità somale e keniote, che sono consapevoli del problema e stanno cercando di affrontarlo. C’è anche una questione di come evitare che ciò accada in primo luogo: nel Regno Unito, ad esempio, c’è molto da imparare da come il governo ha affrontato le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati».

Perché questa problematica non suscita maggiori reazioni?

«Non credo che ci sia una sola ragione per cui questo problema non riceve l’attenzione di cui ha bisogno. I somali rappresentano una fetta relativamente piccola della popolazione e sono generalmente una comunità isolata. C’è anche il fatto che le persone che vengono allontanate raramente parlano apertamente di quello che è successo loro, in genere perché non vogliono mettere nei guai i genitori o non vogliono rivivere quell’esperienza traumatica».

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