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Centimetri di Comunità

Biella, filantropia per lo sviluppo

di Giampaolo Cerri

Continua il viaggio di VITA nelle fondazioni bancarie delle città italiane medio-piccole. A Biella, Michele Colombo, presidente, racconta gli obiettivi di questo ente fra supporto a università, ricerca, sanità e progetti sociali di grande livello, come Cascina Oremo

Michele Colombo, 58 anni, di professione agronomo: un anno fa, la sua nomina a terzo presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella, CRBiella secondo la dicitura più marketing oriented, fu una sorpresa.

Presidente Colombo, una fondazione che ha una storia antica, nasce a metà dell’800 come Cassa di risparmio, che è oggi la 27° tra le fondazioni di origine bancaria, con un patrimonio importante, 262 milioni di euro, su un territorio tutto sommato piccolo, abitato da 175mila persone. Cos’è la vostra fondazione oggi?

Penso che abbia sempre mantenuto l’obiettivo originario di monsignor Giovanni Pietro Losana, quando ha fondato la Cassa di Risparmio nel 1856: l’idea di una restituzione al territorio di quel valore, di quelle risorse, che il territorio, col suo duro lavoro quotidiano, ha costruito. Trovo che sia la grande missione e la grande responsabilità della fondazione e delle fondazioni in genere.

Michele Colombo, presidente Fondazione Cassa risparmio di Biella

È una sfida che state vincendo?

Sì grazie al lavoro di due predecessori, non solo illustri ma di grandissima visione. Luigi Squillario, che è stato il papà della fondazione di Biella – che ha avuto visioni incredibili di questo territorio e che, ancora oggi, nella logica di continuità dell’azione, perseguiamo – e Franco Ferraris, che ha sicuramente accompagnato questa fondazione nel ventunesimo secolo, con innovazioni importanti.

Ne ricordiamo qualcuna?

Per esempio Città Studi, Cascina Oremo, la clinicizzazione dell’ospedale, la convenzione con l’Università di Torino, per citare cose recenti, e che ci danno una grande opportunità di lavorare. Impegni che ci confermano motore di questo territorio. Tutto ciò grazie agli amministratori che, in questi anni, si sono succeduti ma anche grazie a quelli che ci sono (anche nelle società strumentali, ndr).

Usa il plurale, Colombo…

Sento di dovermi definire un primus inter pares perché, come in ogni gruppo rock, ci vuole un cantante ma poi senza la band la musica non viene bella.

Bella metafora, presidente. Si ispira a qualcuno?

Ho una passione giovanile per Edoardo Bennato, ma spero che non siano Solo canzonette quelle che le racconto…

Allora meglio, Un giorno credi o Un burattino senza fili, tanto per citare altre del cantautore napoletano?

Belle entrambe ma la metafora serviva per spiegarle che lavoriamo su grandi temi di sviluppo, grazie a una struttura veramente all’altezza.

Sviluppo e attività erogativa?

Certo. Attenta alle piccole realtà del territorio. Ogni anno si tratta di 500 contributi singoli erogati, in risposta ai bandi. Un’evoluzione, quella dei bandi, che il mio predecessore ha portato all’interno dell’ente e che cerchiamo sempre più di affinare e ottimizzare.

Impegnativo?

È un percorso, una strada che sembra un po’ in salita. A volte ci sono anche dei bei tornanti, pressoché quotidiani, però con un obiettivo concreto di sviluppo del territorio che – e mi piace sottolinearlo – il territorio riconosce alla fondazione, anzi a volte anche troppo…

In che senso, presidente?

Stiamo costruendo il nostro programma pluriennale, siamo reduci da momenti di ascolto, dove abbiamo avuto un riscontro veramente significativo anche della responsabilità che viene attribuita alla fondazione. Reputazione che la fondazione si è guadagnata col lavoro quotidiano, in questi trentadue anni di vita. Quindi non si può essere più onorati di essere nel ruolo in cui sono io.

Colombo, nell’immaginario degli Italiani, il Biellese è un grande distretto laniero, del tessile di alta qualità. Mi par di capire che ci sia altro e che voi siate, in qualche misura, propulsori di questo sviluppo, anche per la vostra ricerca di un rapporto col mondo accademico.

Io sono un un’anomalia nell’anomalia, nel senso che le fondazioni di origine bancaria sono spesso presiedute da avvocati, esperti di finanza, ex dirigenti bancari e io sono agronomo. Detto questo, le nostre radici sono certamente nella tradizione tessile e non vogliamo che ce lo si neghi, perché ci sono livelli di qualità internazionale. Un primato che ci teniamo stretto, nella consapevolezza però che, dalla crisi del 2008, la nostra economia ha dovuto diventare anche più variegata.

La necessità di differenziare…

Infatti, se il tessile è stato, per molti anni, l’elemento catalizzatore economico, oggi lo è ancora ma con una diversificazione che doveva esserci, perché altrimenti il nostro territorio, alla fine, sarebbe imploso. Perché il mondo è cambiato e anche il mondo della produzione tessile.

E voi, in tutto questo riposizionamento?

Dovremmo essere anche costruttori di questo sviluppo economico, ma non nel senso di prendersi sulle spalle il territorio da soli. Il tema è collaboriamo con tutte le componenti del territorio – amministrative, politiche e sociali – per costruire dei percorsi insieme. Potrebbe sembrare una frase facile e anche un po’ abusata, mi rendo conto.

Lei ci crede?

Ci credo davvero: anche perché se da soli si va più veloci, insieme si va più lontano. E noi dobbiamo andare lontano. Cioè dobbiamo avere delle visioni, come amministratori, che vanno ben oltre quello che è il nostro mandato, il nostro tempo. Anche perché dobbiamo pensare a costruire dei processi sul territorio e devo dire che il lavoro di squadra è l’unica cosa che ci può premiare in questo senso.

Sento l’eco di una conversazione precedente, col presidente di Fondazione Modena, Tiezzi. Su come il mondo sia cambiato e quindi anche il ruolo delle fondazioni debba essere ripensato. C’è una generazione di sintonizzati su questo mondo. Ma si diceva dell’ascolto.

Voglio essere chiaro: la fondazione è sul territorio tutti i giorni, da sempre. Non che sia arrivato Michele Colombo e, all’improvviso, succedono delle cose. Cerchiamo solo di migliorare dei processi e anche uniformarci a quello che è il cambiamento del tempo, in un processo assolutamente fondamentale per ottimizzare l’efficacia delle risorse. Perché ascoltare ti permette di individuare le priorità. Perché purtroppo io vorrei avere il doppio delle risorse che ho.

Lei si ritiene un buon ascoltare?

Sono uno che ascolta con umiltà, ma anche con la consapevolezza del ruolo che ha, ossia un ruolo molto importante.

C’è un episodio, una situazione di questa fase, che le ha fatto dire quanto sia importante mettersi in ascolto periodicamente?

Personalmente mi sono dato come obiettivo ascoltare tanto anche come presidente e quindi cercare di dare ascolto a tutti quelli che vogliono a parlarmi. Poi come fondazione, in vista della programmazione, abbiamo – con fatica –selezionato una cinquantina di stakeholder, insieme a un partner tecnico che ci ha accompagnato, la Fondazione Brodolini.

Come avete lavorato?

Abbiamo costruito dei tavoli di ascolto e realizzato una giornata strutturata alla quale abbiamo partecipato noi amministratori ma senza parlare. Ascoltando, appunto.

Bella esperienza?

Sì e molto intensa. Innanzitutto perché sono rimasto colpito dalla maturità delle persone che si sono succedute ai tavoli. Per l’esperienza precedente, quella dei Gruppi di azione locale – Gal (sviluppo locale partecipativo, ndr), sapevo bene come, spesso, i tavoli siano un po’ occasioni di esprimere la propria vanità, il proprio pensiero, l’egocentrismo dell’idea, anche se buona…

E invece?

Invece abbiamo chiesto che chi partecipava ai tavoli si mettesse a ragionare partendo dalla propria esperienze o, se questa esperienza mancava, che si riflettesse comunque in termini di sviluppo del territorio. Ne è uscita una giornata, un report, che è diventato poi occasione di interessanti discussioni all’interno del nostro gruppo di amministratori.

Presidente, ragioniamo sulle tre vostre tre aree di intervento. Le chiedo di indicarmi le esperienze, che voi sostenete, e che ritenete indicative del vostro impegno. Cominciamo da educazione e ricerca.

In quest’area quello che facciamo è conseguenza della grandissima visione che aveva avuto, a suo tempo, l’avvocato Squillario. Abbiamo un’importante società strumentale, Città studi, che è un mondo molto articolato un luogo dove accadono tante cose, dove la formazione professionale e l’università si incontrano, dove oggi gli studenti arrivano dal resto del mondo per il corso di laurea specialistica in inglese “Cultural heritage”. Un mondo sempre in evoluzione in cui la fondazione, con gli altri attori territoriali, ha stimolato la nascita di una convenzione ventennale con l’Università di Torino, un luogo di sapere che guarda al futuro. Penso ad esempio al progetto, Meta che studia l’intelligenza artificiale mettendola a disposizione delle aziende.

Siete i “proprietari” di Città Studi

Siamo i principali azionisti e, grazie alla collaborazione in particolare con l’Università di Torino, stiamo progettando di portare a Biella dei corsi espressamente pensati per la città. Su questo investiamo in risorse e competenze. La società ha di recente raggiunto l’equilibrio di bilancio e da poco abbiamo nominato il nuovo presidente e anche il nuovo direttore. L’ingegner Ermanno Rondi, presidente, è una persona di valore assoluto, espressa del nostro territorio già in tanti ruoli, mentre il nuovo direttore, Giuseppe Distefano, è un manager di grande esperienza e visione. E quindi, se noi siamo gli armatori di una bella nave, dico con grande serenità, ci siamo scelti dei grandi capitani.

Cosa c’è in Città Studi, Colombo?

Dagli Its ai corsi universitari, dalle academies ai laboratori, dalla formazione professionale ad altre offerte formative. Insomma diversi livelli, che possono diventare elemento di sviluppo del territorio, se col territorio dialogano in modo continuo e costruttivo. E questo, come accennavo prima, potrebbe diventare un modello: dobbiamo essere bravi a costruire, nella quotidianità. Pur con le difficoltà di accoglienza che si possono incontrare nelle piccole città, a Biella la qualità di vita è comunque a un livello elevato – e questo ce lo dicono tutte le statistiche – ma l’introduzione di nuovi soggetti, anche in questi ambiti dell’innovazione, è una sfida nella sfida.

Chiudiamo con Cascina Oremo, una cittadella dell’inclusione e dell’innovazione sociale, una cosa che tutta l’Italia vi invidia.

Possiamo dirlo tranquillamente: è di un livello superiore a quello del bacino a cui si rivolge in termini di dimensione, ma anche di prospettiva. Intendo che poteva benissimo essere collocata a Torino, perché ha dei valori, di innovazione e di tecnologie, di proposta, di esperienza, che non ci aspetta forse di trovare a Biella. È diventata una sfida gestionale: è un servizio di primissimo livello che diventa un altro attrattore di questo territorio.

Abbiamo dimenticato qualcosa?

Che il grande tema di Biella è l’inverno demografico. Abbiamo 30 residenti su 100 con oltre cinquant’anni, il 22 per cento con più di 60.

Ne deriva?

Che siamo un territorio che sta implodendo demograficamente. Occorre costruirci un’attrattività e mantenere e migliorare i servizi, tanto da diventare attrattivi per costruire una nuova società, che non vuol dire avere solo persone che vengono ad acquistare casa a Biella, non basta dire “vieni a Biella”, come lo spot di una volta.

Era il mitologico Mobilificio Aiazzone: «Vieni in bici, in auto o in carrozzella, vieni a Biella, vieni a Biella».

Esattamente. Ma appunto, non si tratta di venire a comprare casa, quanto di costruire una nuova società che accolga, al suo interno, nuove persone che vedono nell’opportunità di vivere nel Biellese, la possibilità di costruire la propria vita qui. E noi dovremmo essere capaci di costruire.

Mancano queste opportunità?

Qui abbiamo dei servizi per gli anziani già eccellenti, penso ad esempio al nostro progetto Villa Boffo – Mente Locale, per la prevenzione e cura delle malattie neurodegenerative e Alzheimer. Stiamo lavorando sull’educazione e sull’università, stiamo affrontando una sfida economicamente importante come territorio, come fondazione, particolarmente sulla sanità. Abbiamo un ospedale nuovo, il secondo ospedale più recente del Piemonte, a cui stiamo affidando tecnologie importanti. Cascina Oremo è assolutamente un servizio unico che le famiglie possono incontrare o portare i loro ragazzi per migliorare e acquisire nuove competenze. Si tratta di costruire, in collaborazione con tutti, un sistema di accoglienza che faccia sì che in proiezione il Biellese abbia una nuova socialità e venga scelto come luogo in cui vivere.

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Siete pronti?

La storia del nostro territorio è stata una storia di accoglienza. Se solo si guardassero gli elenchi telefonici, che non esistono più, leggeremmo ad esempio tanti cognomi veneti. Fu l’industrializzazione degli anni 70.

Ambizioni della sua presidenza?

Una, grande, che nello stesso tempo è anche un’altra piccola sfida: costruire un modello di partecipazione dei giovani all’attività di gestione amministrativa della fondazione. Stiamo mutuando un po’ quello che ha fatto Compagnia San Paolo. Il progetto The Young Vision, è un processo che stiamo realizzando in questi in questi giorni, per cui abbiamo già 21 ragazzi che si sono candidati a far parte di un gruppo. Sarà guidato da una giovane che lavora in fondazione, che si sta laureando, e che ne sarà coordinatrice. Poi, affiancati da una società specializzata, creeranno un gruppo di lavoro col quale noi amministratori potremo confrontarci. Con una segreta speranza.

Quale?

Vedere qualcuno dei membri di questa commissione giovani, un giorno, diventare amministratore di questa fondazione o di altri soggetti del territorio.

L’accuseranno di giovanilismo…

Io non sono di quelli che pensano che essere giovane sia un valore di per sé. Bisogna anche essere bravi, allora si può portare qualcosa alla propria comunità. E credo che questi giovani lo faranno. Semmai sarà un nostro problema saperli accogliere.

Evitiamo il top-down, insomma.

Massì, se lo facciamo con schemi da boomer, come siamo, gli offriamo il concerto di musica classica o, chessò, gli offro il già citato Bennato, mentre loro chiedono i Maneskin.

Prima ha parlato del volontariato dei vostri territori che è anche numericamente importante. Questo mondo del Terzo Settore, come lo vede? È il non profit come vi guarda?

Mi colpisce sempre positivamente la passione che queste persone mettono nel dedicarsi agli altri. Il nostro è un territorio piccolo e piuttosto frastagliato: piccoli comuni, valli. Gioco forza anche il sistema del Terzo Settore è un pochino frammentato e questo è un elemento di debolezza, sul quale, sicuramente, c’è tutto il tema dell’organizzazione e sul quale vale la pena di lavorare. Lo facciamo mettendo ordine, collaborando nei termini di co-progettazione e co-programmazione con quei soggetti un po’ più strutturati. Attraverso dei bandi sempre più organizzati, cerchiamo di portare anche gli altri soggetti, un po’ meno strutturati, su percorsi più lineari, creando reti più efficienti che consentano però alle associazioni di mantenere un forte rapporto col territorio.

Parliamo di fondazioni bancarie in generale, presidente. C’è chi le guarda come luoghi di potere.

E secondo me non lo devono essere. Sono luoghi di servizio e di restituzione ai territori. La differenza, a tutti i livelli, la fanno le persone.

Puntata n. 4 / continua

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