La storia di Giovanni Lucchesi

A Buccinasco, la sartoria sociale cresce e diventa profit. I maxi margini del lusso? «Pesano sui produttori»

di Nicola Varcasia

Nata con il machio Mafric, oggi è una società benefit, si chiama Prism e fa terzismo anche per le catene del fashion. Il fondatore, Giovanni Lucchesi, spiega che quello di confrontarsi con le regole del mercato è stato un passaggio necessario per trovare investitori. Ma la mission dell'azienda resta quella di dare lavoro a persone con vulnerabilità. Con tanti progetti di innovazione.... sartoriale. Sul comportamento dei grossi brand il giudizio è molto critico.

C’è un’altra moda oltre le inchieste. Come quella che di recente ha portato al commissariamento il brand del lusso Loro Piana. Ci sono storie come quella di Giovanni Lucchesi. Volontario da sempre, durante il servizio civile in Zambia, un progetto di cooperazione internazionale coinvolgeva una cooperativa sociale che realizzava articoli da vendere ai turisti, facendo lavorare persone con fragilità. Tornato in Italia, ha fatto la stessa cosa. Così nacque Mafric, un brand che riuniva alcune realtà sartoriali attive nel sociale per creare lavoro per persone in situazioni di vulnerabilità. Siamo prima del Covid 19. Questo è infatti il prologo della storia imprenditoriale avviata da Lucchesi. Che oggi si chiama Prism ed è una società benefit, da poco approdata a Buccinasco, alle porte di Milano.

Torniamo ai primi anni, come si è evoluta la vostra organizzazione?

Ben presto ci siamo accorti che spesso, in Italia, molte realtà non profit avviavano sartorie sociali con l’idea di creare un luogo di socialità. Dove le persone potevano sentirsi accolte ed esprimere i propri talenti. Ma, poi, difficilmente creavano una reale inclusione lavorativa caratterizzata da una sostenibilità economica.

Perché?

Ci scontravamo con la difficoltà di reggere le tipiche dinamiche imprenditoriali. Fatica coi costi, i tempi di consegna e con la qualità del prodotto finito.

Come vi siete riorganizzati?

Accanto allo sviluppo commerciale del brand, abbiamo preso in mano la parte produttiva, assumendo direttamente le persone provenienti da situazioni fragili. Questo ci ha permesso di ampliare via via il raggio d’azione, producendo anche per conto terzi, la prima attività svolta con Prism.

Quali sono le vostre attività oggi?

Realizziamo varie collezioni ad esempio quella di Altro Mercato. Ci occupiamo della parte creativa, delle campionature e della produzione, utilizzando tessuto di recupero, le rimanenze delle grandi produzioni.

E la parte di terzismo?

Lavoriamo in ambito sia fashion, realizzando indumenti, sia corporate, ossia creando gadgettistica, zaini, shopper, beauty e articoli vari per altre aziende, spesso all’interno di progetti di Csr. Altre volte no, siamo chiamati semplicemente perché forniamo un servizio. Questo è un punto decisivo per noi.

In che senso?

Il fatto di avere una missione sociale è il cappello che accumuna tutte le nostre attività, ma è il valore in più, che si deve aggiungere, non sostituire al valore del servizio ottimale che vogliamo offrire a chi ci sceglie.

Che cos’è il repairing hub?

È il primo in Italia, è un altro dei servizi che abbiamo avviato. Il cliente può portare nel grande magazzino il suo capo da riparare o personalizzare. Lo store lo manda a noi, che realizziamo la riparazione – ad esempio l’orlo dei pantaloni o la sostituzione della zip – per poi riportarlo indietro, dove il cliente lo recupera. Lavoriamo già con alcune grandi realtà come Leroy merlin e siamo in fase di avanzamento con altre, tra le quali Ovs, Teddy e Decathlon, Ikea e Zara.

Poi state portando avanti un progetto di upcycling all’ingrosso.

Abbiamo creato un format i cui protagonisti sono un brand della moda, un’università di moda e noi. Lo presenteremo ufficialmente il prossimo 19 settembre. Ma il progetto pilota è già in corso con Yamamay e l’università Vanvitelli di Napoli, in cui il brand fornisce all’ateneo un campionario di invenduto della stagione precedente. L’università durante un semestre lo rielabora, creando capi nuovi a partire da quelli vecchi. I progetti vincenti poi vengono prodotti da noi col il grosso dell’invenduto e messi in vendita nei corner sostenibilità del brand.

Siete approdati anche nel disassemblaggio.

Smontiamo i capi dopo il consumo, per indirizzarli verso un riciclo materico.

Ad esempio?

Prendiamo un costume da bagno che, per lo più, è di poliestere. Si smonta il capo nelle sue parti, appunto, poliestere, elastico, retina ed etichetta e si avvia ciascun materiale al riciclo specifico.

Voi nascete come cooperativa?

Abbiamo subito diverse mutazioni. Per lanciare Mafric, avevo costituito un’impresa individuale, che si appoggiava a cooperative. Poi c’è stata una fase in cui lavoravamo principalmente per una sola cooperativa, che ora non è più attiva. Per sviluppare adeguatamente l’attività abbiamo costituito una Srl benefit.

Perché questa scelta di uscire dalle forme tipiche del non profit?

Anzitutto, tra i soci fondatori c’è la Fondazione Giordano dell’Amore, assieme alla quale abbiamo scelto di diventare una società benefit. L’obiettivo era dimostrare che si può perseguire una missione sociale anche stando sul mercato, quindi seguendo le sue regole. Mettendo però dei paletti a livello statutario. L’altro motivo, invece, è molto più operativo.

Vale a dire?

Vogliamo essere sul mercato in tutti i sensi. Se vogliamo crescere, fare investimenti, non ci precludiamo il fatto di trovare investitori. Trovare persone che vogliono investire sul progetto anche con un’idea di profit. Certo, non deve essere il profit l’unico motore dell’investimento, altrimenti non ci interessa, ma non diciamo no a chi desidera investire su di noi con un legittimo tornaconto. Così potremo crescere ancora ed essere interessanti anche per realtà istituzionali.

La forma giuridica dell’impresa sociale, della cooperativa rende meno semplice questo sviluppo?

Se sei una non profit ti precludi agli investitori in generale. Se non a quelli che hanno un interesse puramente umanitario. Una cooperativa sociale può avere accesso a donazioni, a grant, ma non ai investitori. Al tempo stesso, essendo una benefit, rendiamo chiaro a tutti gli eventuali investitori che la mission è molto chiara e definita ed è volta ad avere un impatto sociale-ambientale. Aprendoci però a quelle collaborazioni tipiche del mercato tradizionale che possono portare a una crescita, a una sostenibilità e a investimenti più adeguati.

Dietro ogni singolo capo c’è una macchina che viene gestita da una singola persona. E una persona non può gestire più macchine. Ovunque nel mondo si cerca di abbassare questa incidenza svalutando il lavoro umano.

Come vivete, da terzisti, le notizie che spesso vedono il mondo della moda al centro di accuse pesanti, le ultime in ordine di tempo quelle che hanno portato al commissariamento di Loro Piana?

Sono molto critico su questo fronte. Vedo enormi capitali suddivisi tra soci in cui l’unico obiettivo è il guadagno dell’azionista. Quando vedo le case del lusso applicare margini così alti per incrementare a dismisura il profitto è un segno di tristezza, perché spesso queste operazioni sono fatte a discapito dei produttori.

Come si arriva a queste storture?

Si arriva a giustificare il fatto di pagare cifre risibili per la fase di confezionamento perché il tessuto è costato troppo. Ma il tessuto lo fa la macchina, il confezionamento lo fa una persona. Praticamente, c’è un corto circuito per cui il confezionamento è identificato come ciò in cui si può risparmiare.

Cioè sulla singola persona che cuce…

A livello mondiale, il settore tessile è quello in cui il capitale umano ha un’incidenza più alta rispetto al costo finale del prodotto, più ancora dell’agricoltura. Perché dietro ad ogni singolo capo c’è una macchina che viene gestita da una singola persona. E una persona non può gestire più macchine. Ovunque nel mondo si cerca di abbassare questa incidenza svalutando il lavoro umano. I grossi brand spesso impiccano i piccoli produttori perché hanno un potere negoziale enorme.

Quindi cosa bisogna fare?

Non si può andare oltre un certo limite perché aumentare la produzione significa aumentare il numero di persone impiegate. Il costo più di tot, non può scendere se non sfruttando il lavoratore. Bisogna ridistribuire, almeno di un minimo, il valore del prodotto. Ridare valore alla lavorazione, al capitale umano, limitando un po’ i margini.

Quanti siete in Prism?

Abbiamo una ventina di persone, di cui una quindicina nella sartoria, per la maggior parte rifugiati emigrati che hanno già delle competenze sartoriali. Non possiamo focalizzarci anche sulla formazione, per questo collaboriamo all’occorrenza con realtà specializzate. Grazie all’ufficio del Comune di Milano che si occupa di inserimenti lavorativi, alla Caritas e ad altri enti del Terzo settore è stato naturale intercettare il bisogno di un impiego da parte di persone che provengono da altri paesi come ad esempio il Bangladesh, dove le industrie hanno portato le loro produzioni e che quindi sono già formate.

Come sono inseriti questi lavoratori?

Partiamo con un tirocinio per poi arrivare all’assunzione a tempo indeterminato.

Gli altri vostri numeri?

Nel 2025 supereremo i 500mila euro di fatturato. Ogni anno stiamo più che raddoppiando. Dai 40 siamo arrivati agli 80, poi siamo arrivati ai 200 e adesso viaggiamo verso i 600mila.

Qui tutti gli aggiornamenti di ProdurreBene.

Foto in apertura e nel testo, ufficio stampa Prism

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