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Oltre la detenzione

Donne in carcere, giornaliste di se stesse

di Ilaria Dioguardi

In-Oltre gli occhi è una rivista scritta dalle detenute di San Vittore di Milano. «Andare in carcere è come andare a fare un viaggio nelle teste delle persone», dice Renata Discacciati, la coordinatrice

Si chiama In-Oltre gli occhi, è un giornale quadrimestrale nato dalla voce delle detenute del carcere di San Vittore a Milano. È portato avanti grazie al lavoro volontario di persone che credono nel progetto, in ogni numero viene affrontato un tema differente con il quale le detenute si confrontano. «Noi, che lavoriamo dietro le sbarre, le chiavi, le mura, alla più libera delle opportunità, la stampa, crediamo in questa piccola, ma feroce impresa che offre un modo di espressione in grado di liberare ciascuno dai cassetti in cui è rinchiuso», si legge sul sito del giornale. «Ho iniziato questo progetto otto-nove anni fa, fino al 2020 abbiamo stampato la rivista, oggi è disponibile online», dice Renata Discacciati, coordinatrice editoriale del giornale.

Discacciati, come le è venuto in mente di iniziare questo progetto editoriale nel carcere di San Vittore, con le detenute?

Anni fa andai a San Vittore ad ascoltare un concerto, alla fine fummo invitati ad andare a fare una visita nell’istituto penitenziario. Io mi rifiutai di andare, mi sembrava di visitare uno zoo e rimasi nella sala. All’improvviso sentii il grido “Gol”! C’era una partita di calcio dell’Italia e questo grido mi sembrò così amichevole che mi passarono tutti i dubbi, mi venne voglia di conoscere quelle persone, di fare delle interviste alle detenute. La direttrice mi disse che prima avrei dovuto conoscerle bene e guadagnarmi la loro fiducia. E così feci.

In che modo riuscì a guadagnarsi la loro fiducia?

Mi iscrissi a tutti i corsi in carcere a cui potevo partecipare, da quello di teatro a quello di scrittura di libri. Venivo da una storia editoriale, prima con la Emme edizioni (per bambini) e poi con la casa editrice di libri di viaggio Traveller. Ho sempre amato viaggiare e conoscere. Questo dipende molto dalla mia curiosità. Alla fine dei corsi tre-quattro donne erano interessate a farsi intervistare da me. Ma in queste interviste si ripetevano sempre le stesse situazioni: padre lontano, madre lontana o dura. Mi sembrava noioso, ho preferito fare qualcosa di diverso. Mi venne in mente di fare un giornale fatto dalle detenute, con un esterno che scriveva in ultima pagina.

Cosa le interessava capire, di queste donne?

Mi interessava e mi interessa capire quanto noi siamo uguali a loro. Siamo identiche, solo che noi abbiamo tenuto la “testa in riga” mentre loro l’hanno persa. Gli uomini possono essere continuativi nei loro delitti, le donne sono sempre sotto l’impulso di un’emozione negativa (la paura, un uomo che la disturba o altro). C’è sempre un motivo al di là delle cose sbagliate che fa una donna, sia che lei uccida sia che esporti droga: c’è sempre un uomo in mezzo. Questa è la grossa differenza tra un uomo e una donna in carcere.

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Come viene fatto il vostro giornale?

Parlando e discutendo con le detenute. Io non ho mai riscritto nulla di quello che scrivono le donne, faccio solo correzioni grammaticali. Dico sempre loro che non importa come scrivono, devono far capire cosa pensano. È stato molto difficile all’inizio far capire che potevano dire quello che volevano e che, firmando solo con il loro nome, nessuno le poteva riconoscere e dovevano esprimersi liberamente senza aver paura di fare cattiva figura o di non sentirsi in grado. Ho chiesto loro di darmi fiducia così come io stavo dando fiducia a loro. C’è stata un po’ di fatica iniziale nello scrivere, ma poi erano loro che mi cercavano per chiedermi il tema del numero successivo.

Come scegliete gli argomenti del magazine?

Ogni numero è su un argomento. I primi anni, fino all’inizio della pandemia, distribuivamo il magazine cartaceo. Poi con il Covid non è stato più possibile, abbiamo iniziato a pubblicare solo online. Vado in carcere una volta alla settimana, per due ore, discuto con loro il tema, a volte lo propongono loro e a volte io. Nell’ultimo numero il tema l’ho scelto io: è “Il carcere che non c’è”. Sono rimaste un po’ perplesse quando ho proposto quest’argomento. Ho capito che la cosa peggiore nel carcere è la mancanza totale di libertà. Totale. Ho molta fiducia nelle donne con cui lavoro. Due si sono laureate, un’altra è tornata nel suo paese e ha aperto una boutique: una volta a San Vittore c’era una sartoria dove lei lavorava, si facevano anche i costumi per il teatro della Scala. Fino a qualche anno fa si facevano più attività, come il teatro, ora non più. Ho l’impressione che si siano un po’ dimenticati dei detenuti e delle detenute. A me interessa che le detenute escano dal carcere come se non ci fossero mai state. Mi piacerebbe che tutte uscissero avendo imparato dei lavori e che si mettessero a lavorare: spesso succede. A me interessa che loro abbiano dei rapporti normali, per quanto possibile in un carcere: con me e con gli altri che vanno a trovarli. Voglio capirle, sono curiosa di loro. Andare a San Vittore è come andare a fare un viaggio.

Ci spieghi meglio.

Io in carcere vedo delle persone che non conosco: sono spiazzata io, non sono spiazzate loro. Se vai in Argentina sei fuori posto tu, non gli argentini. andare in carcere è come fare un viaggio nelle teste delle persone. Fino ad ora ho collaborato con una trentina di donne, di tutte le età, di tutte le estrazioni sociali. Molte sono state (o sono) italiane, alcune straniere. Alcune sono in semi libertà, lavorano fuori: una donna in una tipografia, un’altra in un ristorante.

Le donne in carcere che scrivono su questa rivista sono veramente libere nella scrittura

Renata Discacciati

Una volta uscite dal carcere, lei continua ad avere dei rapporti con loro?

Con molte sì. Ci sentiamo e ci scriviamo. Noi volontari non facciamo del bene a nessuno: il bene loro lo fanno a me e io lo faccio a loro. Io sono molto orgogliosa di loro perché riescono a farsi capire con i loro articoli, molto meglio di persone che hanno più cultura e hanno studiato più di loro.

Alcune di queste detenute ha continuato a scrivere, dopo l’uscita dal carcere?

Una persona, in particolare, si è appassionata alla scrittura e scrive poesie. In un primo momento tutte mi dicono che non sono capaci, poi si appassionano. Ognuna scrive un pezzo, poi lo guardo, se non va bene lo faccio rifare, ma è molto raro. Di solito mi mandano i loro articoli via mail, una volontaria fa da tramite: loro non possono usare Internet.

Non serve costruire carceri, serve che la società intera cambi il proprio modo di pensare e vedere così da ricucire il rapporto che inevitabilmente si rompe quando un cittadino commette un reato

Stefania, detenuta

Nell’ultimo numero del magazine (autunno 2023), dedicato al tema Il carcere che non c’è, Lucia scrive: «Il carcere che non c’è è quello che non trattiene i malati psichiatrici, che andrebbero in primis curati e non abbandonati nelle celle dove urlano l’attenzione che gli manca, non essendo la giusta struttura per accoglierli, né avendo medici che possono dedicar loro il giusto tempo. Il carcere che non c’è non ospita malati gravi, o anziani più adatti all’ospedale o all’ospizio che alla galera».

Per un malato psichiatrico la detenzione credo che sia la cosa peggiore che gli possa succedere. È la sensazione di essere privato di qualsiasi movimento, pensiero, cosa. Il malato psichiatrico si abbatte e farlo stare in un carcere è una cosa tremenda per lui. La copertina dell’ultimo numero Il carcere che non c’è è una prigione immaginata che è in una bolla, non esiste nella realtà. Il grafico Matteo Scarduelli è molto bravo.

Il carcere che non c’è è quello dove le persone non elemosinano un assorbente, un paio di calzini, un sapone, come mendicanti per la strada, per poi venderselo in cambio di tabacco

Lucia, detenuta

Cosa le ha dato e le continua a dare un progetto come il suo, a contatto con le detenute?

Mi fa avere un’attenzione alla persona che naturalmente non si ha. Se sono a una festa, la persona con cui sto parlando in quel momento non ha tutta la mia attenzione perché mi guardo in giro, sono distratta da chi entra, da chi esce e da tutto il resto che mi circonda. Se mi metto a parlare con le ragazze detenute, assorbono tutta la mia attenzione. Io che sono curiosa voglio capire perché fanno determinate cose, voglio sapere perché scrivono quello che scrivono. Non credo che mentano quando scrivano, non ne avrebbero nessun motivo. Le donne in carcere che scrivono su questa rivista sono veramente libere nella scrittura. Quello che mi fa più piacere è il fatto che loro siano soddisfatte della rivista. Io dico loro che stanno distruggendo un mito, che molte persone fuori pensano che i detenuti e le detenute siano ignoranti e poco capaci. Dico loro che sono delle persone comuni, dove comuni è un’accezione buona.

Nell’ultimo numero della rivista, nel suo articolo Vorrei il carcere? Stefania scrive: «E la verità è che, forse, anche se esistesse un carcere idealmente perfetto niente sarebbe diverso. Non serve costruire carceri, serve che la società intera cambi il proprio modo di pensare e vedere così da ricucire il rapporto che inevitabilmente si rompe quando un cittadino commette un reato».
Nello stesso numero, nel suo articolo Il carcere che non c’è Lucia scrive «Il carcere che non c’è è quello dove le persone non elemosinano un assorbente, un paio di calzini, un sapone, come mendicanti per la strada, per poi venderselo in cambio di tabacco; perché il carcere che non c’è non ti rovina la salute costringendoti anche al fumo passivo: ma sostiene programmi di disintossicazione anche da questa dipendenza».

Per la parte di design grafica si ringrazia, per la gentile concessione delle immagini, lo studio f205design


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