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La tessitura sociale

Fra cassonetto e shop, 145 vite

di Daria Capitani

Una nostra giornalista ha percorso il viaggio a ritroso di un vestito di pizzo blu di seconda mano, dal negozio Share di Nichelino (To) fino al Textile Hub di Rho (Mi). Qui ha scoperto il più grande impianto di riciclo tessile del Nord: 12 mila metri quadrati. Ci lavorano appunto 145 persone, per i tre quarti fragili, addetti di "Vesti Solidale", cooperativa della Caritas Ambrosiana. Un impianto da 8 milioni, nato da una filiera di investitori sociali, che recupera e porta sul mercato il 60% dei capi raccolti

Un abito blu di pizzo.

Di quelli da indossare in un’occasione speciale. È appeso dietro il bancone di un negozio al centro commerciale “I Viali” di Nichelino, cintura di Torino. L’etichetta verde ha il logo di Share. Si porta dentro una storia, e le vite, di chi se ne è preso cura fino a qui. Per raccontarla bisogna raggiungere Rho, nell’hinterland milanese, un capannone bianco e marrone con una scritta rossa, Vesti Solidale. In quel nome c’è l’essenza di una cooperativa che ha saputo coniugare la vocazione sociale e lo sguardo imprenditoriale, l’etica della sostenibilità ambientale e la cultura del riuso.

Dentro il più grande Textile Hub del Nord Italia

Siamo nel più grande impianto di riciclo tessile del Nord Italia. L’ingresso principale rivela una hall inaugurata da poco, immacolata e ancora spoglia (l’evento di apertura risale a poco più di un mese fa).

La giornata è uggiosa, ma la percezione all’interno è di una certa luminosità. Gli uffici sono accesi, l’impianto in movimento. Sul retro, i cassonetti gialli che chi vive delle Diocesi di Milano, Brescia e Bergamo conosce bene, con i marchi di Caritas e Rete Riuse (Raccolta Indumenti Usati Solidale ed Etica).

L’abito blu di pizzo deve essere stato infilato in uno di questi: chissà se in un sacchetto sigillato come consigliano le buone pratiche riportate sul retro o se ci hanno dovuto pensare gli operatori che ogni settimana si occupano di svuotarne il contenuto. Quel che è certo è che un camion addetto alla raccolta l’ha portato fino a qui, al Textile Hub della cooperativa “Vesti Solidale”. Su un nastro trasportatore ha raggiunto la fase di primissima selezione, durante la quale vengono separati gli abiti dalle scarpe. Inserito in un tubo grigio sigillato, ha superato l’igienizzazione a ozono. Ha continuato il suo viaggio, sotto gli occhi attenti e le mani operose dei dipendenti che suddividono e classificano i vestiti: bambino, coperte, piumoni, capispalla, donna, uomo. Una scelta veloce, questione di secondi, e ogni capo raggiunge, tramite una botola, un piccolo bancone da lavoro.

Qui altre mani, e altri occhi, decidono se inserirlo nella categoria “Crema” (la qualità migliore), “Pre Crema” (subito dopo) e così via. Immaginiamo che il nostro abito blu di pizzo abbia raggiunto la cesta “Crema” e da lì, accuratamente piegato, sia stato riposto in una scatola sigillata insieme ad altri vestiti della stagione estiva. Il caso ha voluto che raggiungesse Nichelino (foto sopra, ndr), dove ha sede uno dei sei punti vendita che la cooperativa gestisce tra Lombardia e Piemonte.

La prima filiera interamente cooperativa
del comparto

L’abito blu è un’infinitesima parte delle 20mila tonnellate di rifiuti tessili che, una volta a regime, il Textile Hub di Rho tratterà in un anno. Una superficie di 12mila metri quadri, di cui 5mila coperti, per un investimento di 8 milioni di euro realizzato grazie al contributo di Confcooperative/Fondo Sviluppo, Cfi-Cooperazione finanza impresa, Intesa Sanpaolo attraverso il Programma Formula in collaborazione con Cesvi, Invitalia, Fondazione Peppino Vismara e Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore.

Un modello di efficienza operativa, all’avanguardia, equipaggiato con attrezzature semiautomatizzate per la selezione e il recupero di capi usati e tessuti. Un impianto a basso impatto ambientale grazie all’utilizzo di pannelli fotovoltaici.

Matteo Lovatti, presidente di Vesti Solidale

Per Matteo Lovatti (foto sopra, ndr) presidente di “Vesti Solidale”, la parola migliore per descriverlo è «sfida». La stessa, continua, «che ci muove fin dall’inizio: adottare nel sociale un’ottica imprenditoriale. Il nostro obiettivo è prima di tutto creare opportunità di lavoro per le persone, in particolare per quelle fragili o tagliate fuori dal mercato del lavoro. Non a caso siamo nati nel 1998 da Caritas Ambrosiana, mossi dalla pastorale Farsi Prossimo e dalla pedagogia dei fatti: volevamo tradurre i nostri valori in un atto molto concreto. Da sempre lo facciamo in modo imprenditoriale perché crediamo nel lavoro come strumento fondamentale per ridare dignità e autonomia alla propria vita. Per raggiungere il risultato, il lavoro deve essere duraturo, stabile e con possibilità di crescita all’interno».

Fra resi e pre-consumer, la solidarietà

Vesti Solidale ha scelto il tessile per dare sostanza all’intuizione: «Siamo partiti dalla raccolta dei vestiti usati per darli a enti terzi, oggi siamo la prima filiera interamente cooperativa del comparto – aggiunge -. Ci occupiamo della fase finale del ciclo di vita di indumenti usati e prodotti tessili post-consumer: abiti, scarpe, borse conferiti nei cassonetti o provenienti da aziende di abbigliamento come capi resi, invenduti, difettosi. E rifiuti pre-consumer, ossia filati, tessuti da scarti di lavorazione». Infine, il riciclo: «Gli abiti che non usiamo più contengono un’enorme quantità di materiale che è un peccato incenerire insieme al rifiuto indifferenziato. Qui noi selezioniamo le fibre che i nostri clienti trasformano in nuovi filati di lana, cotone, jeans, poliestere oppure trovano spazio nel nostro laboratorio Taivé per la creazione di nuovi prodotti con l’upcycling creativo. In fase sperimentale, c’è anche un progetto pilota per il riciclo del nylon e del cuoio».

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Il riutilizzo per una sostenibilità multidimensionale

La filiera principale però è il riutilizzo: «Siamo partiti dieci anni fa con il primo negozio in via Padova a Milano. Oggi abbiamo una catena di punti vendita, si chiama Share. Il riutilizzo legato al rifiuto è la forma più alta di recupero, in grado di garantire la migliore sostenibilità dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Abbiamo a cuore il tema dell’ecologia integrale e puntiamo in tutti i contesti a una sostenibilità multidimensionale, dove la tutela ambientale non può prescindere dalla tutela della persona, dal valore economico che genera e dalla giustizia».

I dati forniti dalla cooperativa dicono che si può fare: nel 2023 ha raccolto 6.151 tonnellate di indumenti usati nel territorio delle province di Milano, Como, Monza e Brianza. Il 60% è stato avviato al riutilizzo (rimessa in vendita dopo l’igienizzazione e la selezione), il 35 % al riciclo, il restante 5 è costituito da rifiuti di carta o plastica che sono stati avviati alle rispettive filiere di recupero/riciclo. «Questo, oltre a produrre un indubbio beneficio ambientale evitando di finire nella frazione indifferenziata alle discariche o agli inceneritori, ha permesso alla collettività di risparmiare oltre 1,5 milioni di euro per lo smaltimento».

Ci sono i numeri e ci sono le persone. “Vesti Solidale” è una cooperativa sociale di tipo B di inserimento lavorativo, con 145 dipendenti, di cui 17 assunti nell’ultimo anno, 11 con svantaggio. Il totale dei dipendenti fragili è del 74,5 per cento, ma la fragilità – Lovatti lo sa bene – non si può incasellare in una percentuale. «Ogni persona ha una storia e un suo approccio: il bello, così come il buio, di qualunque tipo, non è mai standardizzabile», dice.

Le fragilità non sono mai soltanto numeri

C’è il sorriso di una donna che sta preparando le scatole per i punti vendita. Ha una parola gentile per ogni collega: «Ci fa da mamma», scherza il suo vicino di postazione. C’è un uomo di cui non sappiamo il nome perché il presidente della cooperativa ha voluto tutelarne l’identità: «Quando l’ho incontrato non aveva una casa, veniva da un passato di alcolismo. Ha fatto un percorso, si è sposato, oggi ha una figlia di 25 anni. Il giorno in cui è arrivato alla pensione ho pensato: basta anche soltanto una storia di rinascita per dare senso al nostro lavoro».

E poi c’è Ezio Parolo. Ha un ruolo fondamentale per l’impianto: è il responsabile della selezione, controlla che ogni singolo ingranaggio del meccanismo funzioni a regola d’arte. Ci dedica pochi minuti, gli occhi fissi sul nastro trasportatore.

«Il mio vice è quel ragazzo laggiù», indica l’operatore che sta smistando i capi spalla, «si chiama Eyasu, lui sì che ha una storia incredibile, in Libia ha sofferto moltissimo». Non riesce a finire la frase.

C’è vita dentro un abito. A volte è un’incrinatura nella voce.

Le foto di questo servizio sono dell’autrice, per VITA.


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