Persone

Grégoire, il Basaglia d’Africa

di Sara De Carli

Mille persone vivevano in catene: lui le ha liberate. È un gommista nato in Benin, ha 65 anni. Più di metà della sua vita l'ha dedicata a raccogliere i malati mentali dalle strade e a curarli. Il suo modello di psichiatria si impernia sulla comunità terapeutica, con i malati aiutano gli altri malati. Più di 60mila persone in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo sono passate dai suoi centri. Ora è in Italia

Si chiamava Kouakou, aveva appena ventun’anni. Era la domenica delle Palme del 1994. Era incatenato al suolo, a casa sua, con le braccia e le gambe bloccate da un fil di ferro che gli penetrava nella carne. «È marcio, dicevano i suoi genitori. Grégoire era arrivato fin lì chiamato da una sorella di Kouakou. Insieme a una suora infermiera riuscì a tagliare i fili di ferro, ma la setticemia era troppo avanzata, e il giovane morì dicendo a Grégoire: «Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo». Kouakou è il primo malato mentale tenuto in catene che Grégoire ha liberato, andando di villaggio in villaggio, anche 1500-2000 chilometri alla volta fra andata e ritorno. Ne ha liberati ormai mille, creando nel tempo équipe di volontari che sanno come intervenire nelle famiglie che intendano affidare a un centro di accoglienza un parente malato. Discutere con le famiglie è sempre meno necessario, sempre più spesso sono loro a chiamare: il numero personale di Grégoire in Africa lo hanno ormai in moltissimi.

Cesoie, sega, seghetto, mazza e martello: il kit per spezzare le catene che rassicurano i sani. Le catene non sono terapeutiche: peggiorano le condizioni psicologiche e fisiche del malato. Però permettono alla società di non occuparsi di lui, alla famiglia di non vergognarsi davanti ai vicini e ai conoscenti, e soprattutto tengono lontano qualcuno diventato qualcosa che fa paura: lo rendono innocuo, reificandolo. Janine ad esempio fu tenuta fuori di casa per ben trentasei anni, con un braccio bloccato in un tronco, all’aperto, vicino all’immondezzaio ai bordi del villaggio. «È morta di vecchiaia qualche anno fa. La riportammo al villaggio dopo tre anni trascorsi in uno dei nostri centri. Quando fece ritorno la accolsero con una grande festa, fu commovente», ricorda Grégoire.

Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo

Kouakou

Grégoire Ahongbonon (in foto qua sopra) è il “Basaglia d’Africa”. La sua storia è raccontata nel bel volume Grégoire. Quando la fede spezza le catene di Rodolfo Casadei (Emi). Grégoire è in Italia per una serie di incontri-testimonianza sulla sua incredibile esperienza di impegno sociale e di carità: non a caso, nei giorni in cui cadono i quarant’anni dall’approvazione della legge Basaglia, che nel maggio 1978 aprì i manicomi (qui il calendario degli incontri). Grégoire non è un medico né tanto meno uno psichiatra: è un africano di sessantacinque anni che da trentacinque anni si occupa di malati mentali in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. All’origine c’è l’incontro di Grégoire con la fede: senza non si capirebbe nulla di quanto ha fatto e continua a fare. Con l’associazione che ha fondato, dedicata a san Camillo de Lellis, hanno accolto e assistito 60mila malati mentali. Oggi ha dieci centri di accoglienza e sei centri di reinserimento: sono circa 26mila i malati in carico.

Per lo psichiatra Eugenio Borgna è un libro che si legge «con il cuore in gola» e che «ci fa conoscere come si possa promuovere in condizioni di vita (quasi) impossibili una psichiatria fondata sulla relazione e sull’ascolto, nella partecipazione a indicibili sofferenze umane come sono quelle causate dalle malattie mentali: in Africa, in particolare, ma anche in Europa». Perché – ricorda – anche in Europa e anche in Italia abbiamo il problema della contenzione: è una violenza che «anche se non con catene, ma con metodi non solo farmacologici bensì fisici, riguarda anche i servizi di psichiatria ospedaliera e le case di riposo italiani; ed è violenza indicibile che lascia tracce indelebili nelle persone che siano così trattate, e che configura, come sostengono alcuni giuristi, il reato di tortura».

La contenzione è una violenza che anche se non con catene, ma con metodi non solo farmacologici bensì fisici, riguarda anche i servizi di psichiatria ospedaliera e le case di riposo italiani; ed è violenza indicibile che lascia tracce indelebili nelle persone

Eugenio Borgna

In un’Africa in cui la malattia mentale è legata a doppio filo alla stregoneria, Grégoire cura con i farmaci e con la relazione, restituendo dignità alle persone. Casadei scrive che quella di Grégoire «è l’unica iniziativa che si conosca di un africano che si occupa di malattie senza cercare il profitto, senza appartenere a un ordine religioso e senza truffe a sfondo mistico o a base di spartizioni di percentuali fra medici e farmacisti». Per Borgna «in queste modalità di cura il climax dominante è quello di comunità nella quale chi cura e chi è curato si rispecchiano l’uno nell’altro nel contesto di un atteggiamento interiore nutrito di gentilezza e di comprensione, di accoglienza e di amore, di attesa e di speranza: in un orizzonte ideale di equivalenza umana e cristiana. La somministrazione degli psicofarmaci non è mai sganciata da un contesto di accoglienza e di gentilezza, che direi psicoterapeutiche, e sono indirizzate a tenere conto dei modi di comportarsi delle famiglie: sollecitate a prendere parte al processo di cura e, se possibile, di guarigione». Non ci sono contenzioni nei centri di accoglienza di Grégoire e i malati sono liberi di muoversi al loro interno. Non ci sono psichiatri nei centri di accoglienza e sono i malati stessi a una mano, prendendo parte alla cura e talvolta diventando infermieri. Operatori e malati vivono insieme: ha un’efficacia terapeutica. Gli psicofarmaci sono le sette molecole di base definite farmaci essenziali dall’Organizzazione mondiale della Sanità, di cui esiste la versione generica: i costi per questo sono particolarmente bassi, per un valore di circa 680.000 euro l’anno sostenuti in grandissima parte da donazioni.

Come è possibile che i «malati aiutano altri malati»? In tre modi: c’è il semplice aiuto fra compagni di stanza, dove quello che sta meglio aiuta quello più in difficoltà; poi ci sono i malati guariti o stabilizzati che svolgono mansioni non qualificate all’interno dei centri, ricevendone un piccolo compenso; infine ci sono i malati diventati infermieri od operatori specializzati, assunti, messi in regola e retribuiti. Ovviamente ci sono anche operatori retribuiti che non sono mai stati malati, ma sono in numero ridotto. Fra gli ex malati c’è ad esempio Pascaline, che prima di ammalarsi studiava economia all’Università di Parakou, nel Benin. Oggi è la direttrice del centro di reinserimento di Calavi e Grégoire pensa di affidare a lei la responsabilità del centro per il recupero di malati mentali tossicodipendenti che ha intenzione di creare ad Adjarra per il 2019: il suo nuovo progetto, a 65 anni di età.

Il padre camilliano Thierry de Rodellec, responsabile di un centro aperto nel Benin, afferma che «il carisma di quest’opera è di avere uno sguardo sui malati diverso da quello della psichiatria ufficiale. Non c’è più la barriera fra chi cura e chi è curato, gli uni e gli altri si ritrovano su un piede di parità. I primi momenti dell’approccio al malato, quando viene recuperato dalla strada o quando arriva al centro condotto dai parenti, sono quelli decisivi: lui percepisce uno sguardo su di sé che per anni nessuno gli ha riservato. Quando comincia a stare meglio, accetta con entusiasmo la proposta di occuparsi lui a sua volta dei nuovi malati. Così si crea una comunità terapeutica vera, dove i malati curano i malati». Anche tre giovani francesi, quattro sacerdoti e una decina di religiose africani, passati invano attraverso ospedali psichiatrici europei, nei centri della San Camillo sono guariti.

Nel modello di intervento messo in piedi da Grégoire, ai centri di accoglienza sono affiancati i centri di reinserimento: strutture dove il malato stabilizzato impara un lavoro o riprende familiarità con quello che faceva prima. «Senza lavoro, solo coi medicinali, non ci può essere reinserimento», afferma Grégoire. «Anche le medicine diventano una catena. I malati hanno bisogno che noi li consideriamo, che mostriamo fiducia in loro. Attraverso l’apprendimento di un lavoro la persona scopre che cosa può dare agli altri e a sé stessa, e questo è decisivo per la sua guarigione». Il terzo pilastro sono i centri relais. Ce ne sono già 26, soprattutto in Benin: sono ambulatori e farmacie che fanno da primo filtro sul territorio per i bisogni di salute mentale. Chi li gestisce segnala al centro di accoglienza più vicino i casi che meritano il ricovero, sono punto di riferimento per i malati rientrati nei propri villaggi. Centri di accoglienza, centri di reiserimento e centri relais compongono – spiega Casadei – «creato un sistema integrato di salute mentale invidiabile, che Grégoire intende assolutamente esportare negli altri due paesi dove sono stati creati centri legati all’esperienza della San Camillo».

Il carisma di quest’opera è di avere uno sguardo sui malati diverso da quello della psichiatria ufficiale. Non c’è più la barriera fra chi cura e chi è curato, gli uni e gli altri si ritrovano su un piede di parità

Thierry de Rodellec

Nato nel 1952 in Benin, poco meno che ventenne partì in cerca di fortuna in Costa d’Avorio, dove visse dal 1970 fino al 2007. Faceva il gommista e per procurarsi clienti inizialmente lasciava chiodi a tre punte sulle strade. In pochi anni mise in piedi una piccola flotta di taxi, poi fallita. In un momento molto difficile della sua vita, Grégoire incontrò un missionario francese che lo coinvolse in un pellegrinaggio in Terra Santa: ne tornò trasformato. Un giorno, tornando a casa dalla messa, notò un uomo seminudo che scavava in un immondezzaio: era un malato mentale, uno dei tanti che si trovano agli incroci delle strade in Africa. «Avevo notato quel genere di persone altre volte, ma guardavo senza vedere: quella volta l’ho visto per davvero. Mi sono detto: “Eccolo il Cristo, che cerco nelle chiese e invoco nelle preghiere, è qui davanti a me”». È quella la svolta.

In ogni centro Grégoire ha voluto una chiesetta o una cappella, che custodisce il Santissimo e che viene utilizzata anche come alloggio e dormitorio per alcuni malati o malate. Impressionanti le pagine che visualizzano queste donne distese addormentate ai piedi dell’altare: «Dio è felice fra i suoi poveri», dice semplicemente Grégoire.

In molti, anche in Italia e in Europa, hanno colto la grandiosità dell’esperienza di Grégoire, che ha ricevuto premi anche dall’Oms. Per Angelo Righetti, il primo psichiatra italiano entrato in contatto con Grégoire e le sue attività, «si tratta di un’opera di un valore inestimabile e, tenuto conto dell’ambito in cui si attua, quasi eroica». Per Borgna «un libro che ci dimostra come si possa fare una psichiatria umana e gentile anche in condizioni di vita così difficili come sono quelle africane, seguendo modelli di cura non lontani da quelli che hanno consentito a Franco Basaglia di realizzare una psichiatria aperta alla comprensione della follia, e alla solidarietà. A Grégoire l’ammirazione, e la riconoscenza, degli psichiatri che nei malati mentali riconoscono la presenza di una umanità ferita dal dolore, e bisognosa di ascolto e di accoglienza, di tenerezza e di amore, sulla scia dell’insegnamento evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso».

Foto di Fabrizio Agrigossi. La storia di Grégoire è ripresa dal volume Grégoire. Quando la fede spezza le catene di Rodolfo Casadei (Emi). Per partecipare agli incontri in cui Grégoire porterà la testimonianza sulla sua esperienza: www.emi.it

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