«La dislessia non è una porta murata, ma una porta chiusa a doppia mandata. Per aprirla bisogna trovare la chiave giusta». Filippo Barbera sa cosa dice, quando affronta l’argomento. Il giovane insegnante della scuola primaria è dislessico, ma questo non gli ha impedito di conseguire la laurea in Scienze della formazione e psicologia, di scrivere alcuni libri e svolgere molto bene il suo lavoro di maestro alle elementari. Lo scorso luglio ha pubblicato una guida rapida per gli insegnanti, dal titolo “Dislessia – Cosa fare e non”, delle Edizioni Centro studi Erickson.
È decisamente un tema che lei conosce bene, non a caso svolge da anni un’intensa attività di sensibilizzazione sui Disturbi specifici dell’apprendimento – Dsa.
«Cerco di utilizzare tutta l’esperienza che ho sul campo per tradurla in consigli pratici e spendibili, per gli insegnanti ma anche per i genitori».
Le è stata diagnosticata la dislessia quando frequentava la terza elementare, poi sono risultate fondamentali la famiglia e la sua maestra Margherita.
«Sono stati gli elementi più importanti anche per il mio successo formativo, perché una diagnosi precoce ha permesso di capire come funzionava Filippo. La sensibilità dell’insegnante l’ha portata a scegliere tutta una serie di strategie didattiche adeguate al mio profilo di funzionamento. Dall’altra parte, la famiglia si è attivata seguendo le indicazioni della scuola per sostenere il percorso. Questa grande collaborazione mi ha spinto sin da bambino a seguire ciò che mi veniva detto, e questo ha avuto un effetto positivo poi sullo sviluppo delle competenze. Spesso si pensa che gli interventi didattici debbano stravolgere la didattica quotidiana; in realtà, l’esempio della mia maestra dimostra che anche i piccoli accorgimenti possono fare la differenza. Un esempio: con mia mamma lavorai a un giornalino, scritto al computer. Quando lo portai a scuola, la mia maestra mi disse: “Mamma mia, che bel giornalino! Che dici, Filippo, ne facciamo uno insieme a tutti i compagni?”. Una cosa su cui avevo lavorato a casa è stata trasportata nella didattica quotidiana e ha assunto chiaramente un valore maggiore e inclusivo».
Si è mai sentito diverso?
«Sì, soprattutto all’inizio. Percepivo benissimo la differenza tra le mie prestazioni e quelle dei compagni, per esempio quando dovevamo preparare il bigliettino di Natale o per la Festa della mamma: vedevo che la mia produzione grafica era completamente diversa rispetto a quella dei compagni, inferiore per bellezza e qualità. Questo mi faceva sentire molto male, anche se la mia maestra mi diceva: “Guarda, Filippo, che hai scritto comunque un bel pensiero”. Oppure, quando dovevamo leggere dei testi, percepivo in maniera evidente la differenza rispetto ai miei compagni. Ho avvertito un disperato bisogno di diventare bravo quanto gli altri».
Lei si reputa fortunato, ma non ci si può affidare alla fortuna: bisogna predisporre tutti gli strumenti per individuare e correggere certi problemi. E molti insegnanti probabilmente non sono sufficientemente preparati per farlo.
«C’è un percorso di formazione, avviato con la legge 170, che ha avuto sicuramente dei meriti. Però c’è ancora tanto da fare. Una recente ricerca dell’Associazione italiana dislessia ha dimostrato che c’è un vuoto nella formazione dei docenti su questi temi. Bisogna investire tantissimo sulla formazione, ma soprattutto sulla didattica. Con questo libro cerco di dare delle indicazioni pratiche e spendibili che offrono una base di partenza su cui è possibile andare ad approfondire. Oltre alla conoscenza didattica, occorre conoscere il profilo di funzionamento di questi bambini, perché l’osservazione è un altro aspetto molto importante».
Non siamo tutti uguali, i bambini men che meno. Siano essi dislessici oppure no.
«La differenza è una ricchezza che si può palesare in tantissimi modi per l’insegnante. Questa diversità può diventare un valore aggiunto, semplicemente mettendo in evidenza come ci siano diverse strategie di apprendere. Magari un bimbo dice di aver risolto il problema in un modo, un altro ha trovato una soluzione differente. Mettendo insieme questi due diversi momenti di soluzione, ne può nascere un terzo. L’eterogeneità è una ricchezza che, a livello didattico, può fare la differenza».
In una intervista rilasciata a VITA tempo fa, confidò alla collega Anna Spena di essere stato bullizzato a causa della sua dislessia. Il dramma è che certi atteggiamenti sbagliati li hanno avuti alcuni insegnanti.
«Sì, purtroppo questa è la nota dolente della mia storia. Alla scuola secondaria di primo grado mi sono trovato un ambiente ostile proprio a partire dagli insegnanti, che non erano formati sulla dislessia. Se non si conosce una cosa, il problema sorge nel momento in cui non andiamo a formarci o informarci su quel tema. Quegli insegnanti hanno avuto poca attenzione nei miei confronti, usando frasi poco carine del tipo: “Sei dislessico, devi leggere di più”, oppure “Barbera, come è possibile che tu sia arrivato alle scuole medie se leggi come un bambino di seconda elementare?”. Queste frasi hanno avuto l’effetto di fare piazza pulita nelle mie relazioni sociali. I compagni mi prendevano in giro per il mio modo di leggere claudicante o per la mia scrittura».
Ritornando al concetto della porta da aprire, quali sono le chiavi da utilizzare?
«Quello dell’insegnante è un lavoro di alta sartoria: deve realizzare un vestito sul singolo bambino. Ci sono molte strategie che possono essere utilizzate: alcune di tipo visivo, altre di tipo verbale o motorio. Non esiste una chiave per tutte le porte. L’abilità dell’insegnante consiste proprio nel guidare l’alunno a trovare queste strategie. Faccio un esempio: avevo problemi nel distinguere la destra e la sinistra, così ho imparato l’apprendimento per esclusione. Per ricordarmi quale fosse la sinistra, portavo al polso un braccialetto con la lettera S. Di conseguenza, la destra era la “non sinistra”. Analogo procedimento facevo per “maggiore e minore” oppure per l’asse delle ascisse e delle ordinate, le frazioni proprie o improprie, eccetera. Imparavo basandomi su questa strategia, ma ce ne sono tantissime».
Alla dislessia spesso sono collegati altri disturbi specifici dell’apprendimento. È stato così anche per lei?
«Sì, sono dislessico ma anche disgrafico, disortografico e discalculico, quindi sono compromesse tutte le strumentalità di base. Semplificando, possiamo dire che c’è una difficoltà legata alla lettura strumentale, un’altra legata alla scrittura nell’aspetto grafo-motorio ma anche nell’aspetto linguistico. E poi, alcune componenti legate al calcolo sono compromesse. Queste mie caratteristiche, soprattutto alla scuola secondaria di secondo grado, hanno pesato. Ma lì, a differenza della scuola media, ho trovato insegnanti sensibili e competenti che mi hanno invitato a sperimentare delle strategie che andavano a compensare queste mie difficoltà. Alla fine del percorso ho trovato sempre ciò che mi permetteva di avere prestazioni assimilabili a quelle dei compagni. A tal proposito, voglio lanciare un messaggio di speranza: non dobbiamo concentrarci soltanto su ciò che non funziona. Anzi, il più delle volte questi bambini o ragazzi hanno tanti talenti. Spetta a noi individuarli».
Lei parla dei suoi disturbi al presente. Significa che non si superano mai del tutto?
«Diciamo che rimangono, nel senso che una persona è dislessica per tutta la vita perché è una caratteristica. Il disturbo evolve nel tempo però si impara a gestirlo, a conviverci. È una sorta di negoziazione continua. Anche nella mia professione di insegnante, ho sviluppato tante e tali strategie e individuato soluzioni, che la dislessia non è più un limite. Anzi, è diventato paradossalmente un pregio. Questo è un altro augurio che faccio a tutti i ragazzi e ai bambini, affinché abbiano la fortuna di trovare da subito insegnanti sensibili e competenti».
Cinquant’anni fa, ma anche più recentemente, la dislessia era poco conosciuta. Per un dislessico era davvero problematico affrontare questi disturbi in una delicata fase della crescita. Oggi, per fortuna, non è più così. Ma quanto resta ancora da fare?
«Tantissimo. Occorre cambiare la cultura delle persone. C’è ancora una visione negativa legata ai Dsa, che vengono ancora visti come un limite. Spesso manca la sensibilità che ci porta a guardare oltre. A volte non si riesce a vedere il talento che c’è in ognuno di noi. Mi è capitato di parlare con delle persone e, quando ho detto loro che sono dislessico, qualcuna ha esclamato: “Oh, poverino!”. Ecco, dentro la parola “poverino” si capisce il grande passaggio culturale che va fatto. Io non mi sento affatto povero. Nel mio caso, la dislessia mi ha reso più ricco, quindi dev’essere vista come una caratteristica e non come un limite. Va fatta ancora tanta sensibilizzazione e formazione, anche a livello generale. Purtroppo, c’è ancora una visione troppo semplicistica e arcaica».
Ci parla dell’effetto pigmalione a cui fa riferimento nel suo libro?
«Semplificando al massimo, è l’effetto delle nostre aspettative. Se io penso che un bambino non ce la possa fare, anche inconsciamente mi muoverò in modo tale che questa mia aspettativa trovi conferma. Perciò si verifica una sorta di profezia che si auto-avvera. Non dobbiamo mai pensare al bambino come ad una persona che ha un limite, piuttosto dobbiamo aiutarlo a trovare la strategia giusta, la chiave adatta per andare oltre il limite. Il messaggio che deve passare è che imparare con più difficoltà non significa non essere in grado di apprendere. Se io parto prevenuto, i risultati che otterrò saranno sicuramente minori. Se penso a tutti gli insegnanti che ho avuto nel corso della mia carriera di studente, chi mi ha veramente lasciato molto sono coloro che sostanzialmente hanno creduto in me. Già solo il fatto di credere in me e pensarmi in un certo modo, ha fatto la differenza».
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