É passato un anno. Sono 12 mesi che proviamo a imparare come convivere con il Coronavirus. 12 mesi sono un tempo lungo. Ma la pandemia ci ha mostrato, una volta in più, come “lungo” non si uguale per tutti. Sì perché il tempo diventa più lungo per le persone senza dimora, per quelle accolte nei centri di accoglienza. Il tempo diventa più lungo per chi è più povero.
La pandemia ha fatto male a tutti, ma, anche in questo caso, non a tutti allo stesso modo. «Il diritto alla salute», racconta Alessandro Verona, referente medico dell’organizzazione umanitaria Intersos, «è stato un diritto negato. Hanno prevalso visioni e misure inique, emergenziali, prive di un approccio socio-sanitario e, perciò, frammentarie. Con il nostro progetto di medicina di prossimità abbiamo provato a tenere insieme quei frammenti».
Intersos che già da nove anni in Italia porta avanti interventi socio-sanitari rivolti ai soggetti più deboli e marginalizzati, a marzo dello scorso anno, con l’arrivo della pandemia, ha potenziato le proprie attività con l’obiettivo di supportare il sistema sanitario pubblico. Da Roma a Foggia, in Sicilia come in Calabria. Un intervento per andare oltre la medicina territoriale e trasformarla in una medicina di prossimità. Giovedì 11 marzo, alle 17, l’organizzazione presenta il rapporto “La Pandemia Diseguale”, l'evento sarà in diretta sulle pagine Facebook di Intersos e Vita.
Come si superano questi ostacoli?
Bisogna adeguare la proposta di servizio alle esigenze delle persone che abbiamo davanti, avvalersi di un approccio multidisciplinare, sviluppare ulteriormente le competenze degli operatori, valorizzare la partecipazione comunitaria, permettendo così un aumento di accessibilità e fruibilità.
Come vi siete mossi?
Nello specifico, la metodologia operativa degli interventi di contrasto ha seguito tre filoni principali: la promozione di misure di “sanità di iniziativa”, ossia l’offerta attiva di visite mediche per l'individuazione precoce di casi sospetti e il loro inserimento in percorsi di tutela, la promozione di approcci basati sulle esigenze e le caratteristiche delle singole comunità, il dialogo con le Istituzioni al fine di migliorare l’accessibilità e la fruibilità delle misure di prevenzione anche per le persone con vulnerabilità.
Sulla base dei numerosi bisogni intercettati sul territorio, pertanto, sono stati organizzati team sanitari mobili, uno Roma, e due a Foggia, composti da un referente delle operazioni, due medici (di cui una figura operativa e di coordinamento), un’infermiera (health promoter), due operatori umanitari con competenza in mediazione linguistica e culturale, un case manager per gli aspetti sociali e un logista. I due team hanno svolto e svolgono tuttora attività di sorveglianza sanitaria, educazione sanitaria e promozione della salute in spazi organizzati adibiti ad uso abitativo (“occupazioni abitative” o “insediamenti urbani organizzati”), insediamenti informali (spazi limitrofi alle principali stazioni ferroviarie) e centri di accoglienza per persone italiane e straniere in condizione di fragilità, per richiedenti asilo e per minori stranieri non accompagnati.
In particolare nelle occupazioni abitative, sfruttando la maggiore organizzazione delle comunità, è stato possibile individuare e formare dei referenti sanitari comunitari, per facilitare la sorveglianza sanitaria negli insediamenti e la diffusione a livello capillare delle buone pratiche di prevenzione trasmesse durante le sessioni di educazione sanitaria.
Cosa dovremmo imparare da questi mesi?
Che la salute individuale dipende da quella collettiva. Siamo tutti interdipendenti e non possiamo pensare di lasciare indietro qualcuno. Le norme di prevenzione al Covid danno per scontato che tutti abbiano un tetto, ma un tetto tutti non ce l’hanno. E la pandemia ha solo aggravato una situazione che era già difficile. Spero che questa esperienza aiuti a comprendere che serve equità e tutela, e bisogna ricominciare da chi è più trascurato. Non si può lasciare indietro nessuno e doverlo ripetere nel 2021 è davvero amaro. Serve tornare ad un sistema sanitario che sia nazionale per davvero. Adesso il privato sociale sta sperimentando questa nuova forma di medicina prossimità, a sostegno della medicina territoriale. Ma è il pubblico che la deve implementare in tutto il Paese.
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