Sandro Antoniazzi

La politica mondiale del lavoro

di Marco Dotti

Il lavoro è diventato globale e il campo in cui si gioca il suo futuro non è più a portata di mano. O così sembra, perché con la crisi si aprono nuovi fronti: in particolare quello di una rilettura sociale dei processi di produzione del valore, che devono puntare a una globalizzazione «più equa e a una sempre maggiore unità fra i lavoratori di tutti i Paesi«

Il lavoro è diventato globale, si è internazionalizzato. «Se una volta l’internazionalismo era un obiettivo del movimento operario», spiega Sandro Antoniazzi, «oggi è una scelta del capitale e, per i lavoratori, è diventata una scelta obbligata».

Sindacalista Cisl per oltre trent’anni, oggi presidente dell’Associazione Convivialità, Antoniazzi ha dedicato al tema il suo ultimo libro, edito da Jaca Book: La politica mondiale del lavoro. Affrontare la globalizzazione (pagine 125, euro 15). Ne parliamo con lui.

«There is no alternative», affermava Margaret Thatcher, riferendosi al liberismo. Lei nell’ultima parte del suo libro, parla invece di un’alternativa possibile e la declina come alternativa sociale. Che cosa intende con questa espressione, “alternativa sociale”?
Chiamo “sociale” una possibile alternativa, perché chiamarla “politica” la priverebbe di un riferimento concreto a dei soggetti. Non ci sono più soggetti politico, come un tempo lo furono i partiti, in particolare di sinistra.

Al di là della forma che hanno assunto, i partiti della cosiddetta sinistra non sono né sarebbero comunque soggetti in grado, su scala mondiale, di poter avviare un progetto di cambiamento. Parlando di alternativa sociale, invece, intendo dire che un movimento molto vasto, composto da sindacati, forze intellettuali, movimenti femministi e ambientalisti, realtà territoriali indigene possono contribuire a costruire un’ipotesi alternativa. Un’ipotesi tutta da costruire, ma almeno sul piano sociale qualcosa si muove. Su quello politico, invece, è la stasi.

Un’idea da cui partire, che contraddice anche l’ipotesi della Thatcher, è che il capitalismo non arriverà dappertutto. Ci sono vaste aree del pianeta che, nonostante l’idea anche marxiana che il capitalismo un giorno avrebbe rappresentato la totalità dell’economia mondiale, appare sempre più evidente che non è così.

Un esempio?
L’Africa, un continente che entro pochi decenni raddoppierà la propria popolazione. È del tutto evidente che qui il lavoro “classico”, a tempo pieno, non attecchirà mai.

Il capitalismo troverà dei problemi da questo punto di vista e, anticipando quei problemi, noi già ora potremmo pensare a quel terreno come ambito per altre forme di economia che, sebbene non saranno immediatamente alternative al capitalismo inizino a sviluppare altre potenzialità.

Dal punto di vista del sociale, anche nel nostro Paese sta accadendo qualcosa?
Pensiamo a tutto il discorso della cura. Un discorso alternativo alla logica puramente capitalista, ma è un discorso che va accompagnato e costruito. Anche in questo caso si tratta di linee di fuga, che conviveranno a lungo, questo è l'auspicio, con una dinamica capitalistica ma che stanno mostrando già il proprio valore. Un'economia altra è già qui, dobbiamo coglierla, vederla, aiutarla e ripensare assieme.

La globalizzazione ha scardinato le logiche novecentesche del lavoro, ma anche l'idea stessa di lavoro…
No, su questo non sono d'accordo. L'idea di lavoro è sempre lì, il lavoro non scompare, si internazionalizza. Una certa parte della sinistra, contestando la teoria del valore di Marx, ha abbracciato del tutto l'ipotesi che il lavoro sia unicamente cognitivo, affettivo e non si può misurare in termini di ore di lavoro…

Che cosa non va in quest'analisi?
Non va che si scambia il tutto per la parte. Non dobbiamo confondere l'unità di misura del lavoro, l'orario classico, certamente obsoleto, e il ruolo che il lavoro ancora ha nel formare la ricchezza . L'errore di Marx fu pensare che la teoria del valore si potesse tradurre in termini di calcolo e matematici, mentre è una teoria politica. D'altronde, la sinistra che ragiona così finisce per abbracciare idee come il reddito di base e il reddito di esistenza che non c'entrano più niente col lavoro.

Il sindacato che ruolo ha?
In una situazione che vede scardinato il lavoro – ripeto: non il suo ruolo centrale nella costruzione della ricchezza, ma la sua forma – il sindacato deve prendere in mano la situazione a livello globale. Ci si lamenta molto del lavoro precario, in Italia, ma a livello globale il problema è il lavoro informale che rappresenta la maggioranza del lavoro. Il lavoro precario non è che il lavoro informale rivestito di qualche abbellimento giuridico.

Il tema è che il lavoro produttivo si è spostato altrove, in Asia in particolare…
Proprio per questo non abbiamo più un movimento del lavoro di carattere rivendicativo, perché anche la ricchezza viene redistribuita in un'altra maniera (di certo non passa più dalle poche fabbriche che rimangono). Per questa ragione ritengo che il movimento sindacale debba affrontare di petto la questione del capitalismo. Se non lo farà, rimarrà nell'angolo. L'accettazione acritica del capitalismo, con la logica del meno peggio e del "portiamo a casa quel riusciamo per i lavoratori" è una logica che non funziona più.

Non è una sfida improba?
Dirò una cosa in controtendenza e positiva, che nel mio libro appare: no. Dall'anno 2000 c'è stata una svolta fondamentale. Pensiamo che dal 1945 al 1990 l'unica, vera attività del movimento sindacale mondiale era il confronto fra comunisti e anticomunisti, poi c'è stato un tempo di passaggio e nel 2000 le cose sono cambiate. Insisto su questa data, perché è molto significativa: il 2000 è anche l'anno in cui l'ONU comincia a occuparsi del lavoro e l'Organizzazione Internazionale del Lavoro decide di concentrarsi sul decent work.

Paradossalmente, proprio nel XXI secolo i sindacati internazionali iniziano a fare i sindacati…
Esattamente, abbandonando le attività filo o anticomunista. A livello internazionale siamo migliorati, solo che vent'anni sono pochi rispetto alle multinazionali, che sono ancora troppo avanti. A livello locale, invece, tutto è legato al lavoro precario: dobbiamo collocare il lavoro precario non solo nel contesto italiano, ma nello scenario globale complessivo. A questi problemi locali si risponde sostenendo un minimo di condizioni di garanzia per tutti, portando avanti decisamente il discorso della riduzione dell'orario di lavoro e allargando lo sguardo oltre i confini.

La riflessione su questo tema è stata molto forte nelle reti legate all'enciclica Laudato si', pensiamo alle reti delle riviste dei gesuiti, in particolare The Future of work. Labour after Laudato si'
Lì si è riflettuto molto sul cosiddetto lavoro di sussistenza, che è una parte importante del lavoro globale, Il lavoro di sussistenza ci sembra molto lontano e, di fatto, lo è dalle nostre realtà europee dove il lavoro è organizzato, "artificiale": viviamo in una grande organizzazione che sembra non escludere nulla.

Invece...
Invece il lavoro di sussistenza tornerà presto fondamentale anche da noi. Dobbiamo abbandonare un'idea del lavoro di tipo marxista che seguiva la narrativa della "classe operaia che cambia il mondo". Bisogna avere un'idea più realistica, migliorare le condizioni di vita, diminuire le ore di lavoro per sviluppare anche altre possibilità, valorizzare il lavoro di cura e anche il lavoro di sussistenza. Se non c'è un'idea diversa del lavoro, che sia più realistica ma che punti a valorizzare anche i lavori umili, tempo che perderemo del tempo. In ogni caso, ci arriveremo per forza a dover valorizzare il lavoro di sussistenza, le condizioni generali dicono questo. Arrivarci attrezzati per tempo o lasciare che, semplicemente, le cose accadano farà la differenza. Non sarà una differenza da poco.

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