Da oggi in edicola c’è “Exit Slot”. Il numero di Vita di febbraio. Un monografico che racconta la storia italiana del gioco d’azzardo legale e poi traccia una strada, suggerisce una via per “liberare” l’Italia da questa emergenza nazionale. Ma dietro i numeri ci sono le persone. Così in Exit Slot troverete anche i racconti dolorosi di alcune donne. Soprattutto mamme e compagne di giocatori. Perché la loro è una sofferenza diversa. Nascosta. A cui nessuno guarda mai. La cosa che è emersa è questa loro costanza nel restare sempre accanto a questi uomini che hanno svuotato loro la vita. Ma è solo una questione d’amore? Abbiamo chiesto alla femminista e scrittrice Lea Melandri, 75 anni, perché sono sempre loro, le donne, a stare un passo indietro. «È una forma di dedizione all’altro che ogni donna si porta dietro dall’infanzia» ha affermato. «Noi donne, ancora oggi, non siamo mai l’oggetto dell’amore. Fin da piccole siamo state chiamate “a prenderci cura di…”».
Che rapporto ha avuto lei con la sua famiglia d’origine?
Sono figlia unica. I miei genitori erano contadini molto poveri che lavoravano in un paesino di provincia della Romagna. Vivevamo però in una cascina con altri tre famiglie. Mio nonno era il patriarca. Quando c’è molta povertà c’è sempre tanta violenza. Ho visto donne forti, vitali che lavoravano in campagna, curavano i loro mariti, la casa, sottomettersi. Erano donne che sottostavano al comando degli uomini e ne subivano la violenza. Quando a 25 anni sono uscita da quella famiglia avevo un’idea delle donne e del femminile molto ambigua: da un lato una figura potente e importante; sostegno materiale e indispensabile, dall’altro persone sottomesse e maltrattate.
Poi è andata via?
Nonostante la povertà, ho avuto modo di studiare. Sono stata fortunata. A 25 anni ero già entrata di ruolo in un liceo. Per compiacere la mia famiglia ho sposato un ragazzo. Avevo questo strano senso di colpa e riconoscenza per i miei genitori che avevo timore a contraddirli. Ma il vedermi fissata già in quel ruolo di moglie e madre in quella casa non poteva andare bene per me. Dopo tre mesi l’ho lasciato “mio marito” e mi sono trasferita a Milano. Era il 1966.
I ruoli di moglie e madre…
Arrivata a Milano ho incontrato il movimento delle donne. È stato il femminismo dell’inizio che ha posto degli interrogativi radicali. Quelli che io chiamo del corpo, della sessualità, della maternità. Gli interrogativi sul rapporto tra i sessi. È così che ho iniziato a capire quanto la storia e la cultura avessero inciso a dare una forma precisa alla vita delle donna sia nella sfera pubblica, immobilizzata in una sorta di innaturalità, che in quella privata dove la donna viene cancellata come persona, come individuo: “sono le mogli di…”, le “madri di…”.
Qual è il punto di inizio di questa “rivoluzione” femminile?
Mettere a tema tutto quello che era fuori tema. La vita personale, la donna, non era più un residuo della storia consegnato alla cultura. La storia non scritta, quella della vita personale delle donne, doveva essere restituita e scardinare l’ordine esistente.
Perché ancora oggi è così marcato questo confine tra “quello che è maschile” e “quello che è femminile”?
Ci portiamo dietro un’eredità pesantissima. Sedimenti profondi che vengono da secoli di storia. Lo assorbiamo fin da bambine attraverso l’educazione, la famiglia, la scuola. Così hanno insegnato alla vittima a parlare la stesse lingua dell’aggressore.
Il problema principale è che sono prima le donne ad aver interiorizzato un modello sbagliato?
Assolutamente. In che altro modo si potrebbe spiegare tutta questa “sopportazione” rispetto alla violenza degli uomini. Fisica, psicologica. C’è una copertura forte, è inutile negarlo.
Che cos’è questa copertura?
È questo legame tra uomo e donna che tiene intrecciati e confonde ancora amore e violenza. Per capire che cos’è la violenza, banalmente, a volte, bisogna interrogare l’amore. Non sentite spesso dire “l’ho fatto per amore”?.
Questo nel privato. Ma nella vita pubblica?
Le donne nella vita pubblica per un verso cercano di far valere le loro doti, le loro capacità. Ma poi spesso si ritrovano in una posizione quasi ancillare con gli uomini. Finiscono a fare il maternage anche nei luoghi di lavoro. Li sostengono, se ne prendono cura. Quindi quello che io vedo è ancora questa difficoltà nell’andare fino in fondo, nel provare a capire dov’è nata questa “capacità di sopportazione” della violenza sia manifesta che più sottile. Con violenza manifesta intendo proprio il maltrattamento fisico in tutte le sue forme più vistose e selvagge.
Che intende, invece, quando parla di “forme più sottili”?
È la violenza invisibile, quella che c’è anche nell’amore. È questa idea di dedizione, questa forma di appartenenza intima ad un altro essere, questa idea di essere “due in uno” che ti vincola. E lo fa perché in qualche modo ricrea il legame che c’è nell’infanzia tra una madre ed un figlio che non può essere prolungato anche nelle relazioni della vita adulta. Perché questo sogno di “fusione” non può che scatenare violenza. Non vedete come l’uomo si accanisce contro il corpo che l’ha generato? Che poi è lo stesso corpo che gli ha dato le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali. Ed è lo stesso corpo che poi l’uomo adulto incontra nella vita amorosa e di nuovo torna a sognare “il sogno d’amore e l’illusione del due in uno”. Dell’essere quindi intimamente appartenenti ad un altro essere.
"Una donna deve stare nel mondo. Deve fare le cose che ama per legittimare la sua intelligenza. Fare tutto quello che “non è stato pensato per loro”
Perché le donne sopportano?
Siamo chiamate, fin da piccole, a dare amore. Ogni donna si porta dietro dall’infanzia questa forma di dedizione verso l’altro. Non siamo l’oggetto dell’amore, noi quello dobbiamo solo darlo. Quando ad una bambina metti in mano una bambola, le stai dicendo “prenditi cura di, dai amore all’altro”. Quindi c’è una cesura profonda sul desiderio e bisogno d’amore della donna fin dall’inizio. La donna è stata confinata per secoli in questo ruolo di madre ed oggetto sessuale. Questo ha fissato l’amore nella sua forma originaria.
Qual è il potere che le donne inconsciamente cercano?
Quello di essere indispensabili. Ad un figlio, ad un marito, ad un amante. Rendersi indispensabili è il potere sostitutivo di altri poteri che le donne non hanno avuto. Quando le hanno confinate all’interno delle case è lì che hanno cercato di “strappare” qualcosa per sé. Si cerca di creare un debito nell’altro. Debito che, tra l’altro, diventa inestinguibile. Banalmente quando si mette sulle spalle di un figlio il sacrificio della tua vita e gli si dice “ho dedicato la mia vita a te”, gli si mette anche una croce sulle spalle da cui non si libererà più.
La vita pubblica del marito, ha stabilito anche il ruolo privato della donna. Le donne hanno assunto questa “visione dell’altro” come se fosse la loro…
L’idea di essere indispensabili per il marito o per un figlio è uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle donne. Ed è questa funzione di indispensabilità che lega per molto tempo le donne a questi uomini. Anche a quelli che si giocano tutto e mettono a rischio la famiglia. Si considera il compagno come un figlio scapestrato che si deve recuperare aiutare.
Di solito giocano anche i soldi delle compagne o delle mogli…
I soldi dell’uomo sono dell’uomo. Quelli della donna pure sono dell’uomo. Il patrimonio, nell’immaginario collettivo, è maschile…
C’è sempre questa strana presunzione, nelle donne, di poter essere “la salvezza o la dannazione” di quell’uomo…
È idea antica questa. Si trova nell’antologia del maschilismo. Ma ce l’hanno anche le donne dentro. “Io lo posso salvare”, “io lo posso aiutare”. Quindi se sopportano a lungo è perché dietro c’è sempre questa idea di “una possibilità di riscatto”, di un “cambiamento possibile da parte dell’uomo”. L’interrogativo vero è, ma come vivono le dipendenze dei mariti, come il gioco d’azzardo ad esempio, la vivono come violenza oppure ancora come debolezza?
Il dato di fatto, anche se triste, è che la posizione delle donne non è ancora radicalmente cambiata nella società. Dove ha sbagliato il femminismo?
Quantitativamente sono tantissime le donne nella sfera pubblica. SI trovano anche in contesti di potere ad un livello discreto. Il problema è che non sono presenti in una funzione che ha cambiato molto l’identità e il ruolo femminile. Non si esce da millenni in cui le donne sono state educate in funzione dell’altro con tanta facilità. Quello che il femminismo deve continuare è questo processo non tanto di emancipazione ma di liberazione rispetto ai modelli profondi che ci portiamo dietro. La pratica dell’auto coscienza bisognava portarla avanti. Dove? In tutti i luoghi possibili dove siamo presenti: nei giornali, nelle università, nei partiti. Dobbiamo ragionare su come stiamo dentro quel luogo. E soprattutto dobbiamo chiederci: perché stiamo in un luogo che ha creato linguaggi che non ci contemplano.
I ruoli di potere sono ancora solo maschili?
Non c’è dubbio. I rapporti di potere vanno avanti da millenni, non si scalzano in una o due generazioni. E le donne nel tempo hanno fatto propria quella immagine di sé. E gli uomini difficilmente mollano il loro potere…
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Cara lettrice, caro lettore: il 25 e 26 ottobre alla Fabbrica del Vapore di Milano, VITA festeggerà i suoi primi 30 anni con il titolo “E noi come vivremo?”. Un evento aperto a tutti, non per celebrare l’anniversario, ma per tracciare insieme a voi e ai tanti amici che parteciperanno nuovi futuri possibili.