Prendersi cura

Mamma per scelta di un bambino con Aids

di Anna Spena

La testimonianza di Augusta Mamoli, storica volontaria di Fondazione Arché, che ha scelto di adottare un bambino, Cristiano, ammalato di Aids, che dopo 2 anni insieme è morto. «Ci sono voluti mesi per ricominciare a dare un senso alle cose che facevo», racconta Augusta. Mentre vent'anni fa i malati venivano demonizzati, oggi, invece, di questa malattia si parla troppo poco...

La signora Augusta oggi ha 70 anni. E si commuove quando parla di Cristiano. Un bimbo morto ad otto anni di Aids. Era il 1992 quando lei, suo marito e il loro figlio Matteo l’hanno accolto in casa. Quando nel gennaio del 1994 Cristiano è morto, la vita di Augusta si è fermata: «Ci sono voluti mesi per ricominciare a dare un senso alle cose che facevo», racconta. Poi nell’estate dello stesso anno ha iniziato a scrivere un diario per raccontare a se stessa l’esperienza che aveva vissuto ed anche per provare a riviverla attraverso le parole.

«Ad un certo punto l’ho interrotto. Era arrivato il momento di raccontare i momenti più dolorosi, quelli in cui la malattia era diventata troppo pesante per quel corpicino stanco. Quelli della separazione». Eppure quel diario oggi è diventato un libro. “L’ombrellino Rosso” pubblicato da Fondazione Archè Onlus.

«Dopo tanti anni ho ritrovato il coraggio di raccontare quei pezzi di vita così dolorosi». Augusta Mamoli è una storica volontaria di Fondazione Archè. La onlus che è nata oltre vent’anni fa a Milano con l’obiettivo di supportare i bambini sieropositivi o malati di Aids.

Com’è iniziata la sua esperienza di volontaria con Archè?
Erano gli anni 90’ e mio figlio Matteo frequentava l’oratorio della chiesa di Sant’Angela Merici, dove padre Giuseppe Bettoni ha fondato Archè. L’associazione che portava aiuto in ospedale ai bambini sieropositivi, malati di Aids e alle loro famiglie.

Di cosa si occupava all’inizio?
Andavo in ospedale a far un po’ di compagnia ai bambini.

Poi, cos’è successo?
Mi è stato chiesto di prendere in affido un bimbo di sei anni, Cristiano. All’epoca il suo era già Aids conclamato. È stato due anni con noi, poi è morto.

Cosa ricorda di quegli anni?
Una grande sofferenza e un grande dolore. Un dolore sereno, però, se così si può definire. Quando l’abbiamo preso sapevamo cha sarebbe morto. Non c’era speranza per lui. Il nostro compito era accompagnarlo più serenamente possibile al giorno in cui è mancato.

E i genitori biologici di Cristiano?
Bellissimi, due ragazzi poco più che vent’anni. Anche Cristiano era bellissimo – lo so che ogni mamma dice lo stesso dei propri figli – ma Cristiano era particolarmente bello. Bello di viso ma molto provato nel fisico; camminava storto, un po’ acciaccato. Il papà era un tossico. Si Sarà ammalato con qualche siringa infetta.

E la mamma?
L’ha contagiata il papà. Entrambi si sono accorti di essere ammalati dopo la nascita di Cristiano. Il bambino non stava bene e all’ospedale hanno scoperto che era sieropositivo. Ed i genitori hanno scoperto così di essere ammalati anche loro.

Sono ancora vivi?
Cristiano è morto a gennaio del 1994; la mamma a giugno e il papà a settembre: una famiglia sterminata dall’Aids.

Andava a scuola?
No. Qualunque contatto con gli altri bambini per lui sarebbe stato letale. Un semplice raffreddore sarebbe diventato polmonite. Ma era intelligente, acuto. Mia sorella, che è una maestra, gli ha insegnato a leggere e scrivere.

Ha accolto un bimbo in casa quando la parola Aids suonava ancora quasi come una bestemmia.
C’era questo terrore della sieropositività e del contagio. Nei primi anni 90’ l’Aids era un problema grosso – non che oggi non lo sia – e la gente aveva paura. Le persone sieropositive venivano allontanate, scacciate, tagliate fuori da tutto: la gente aveva paura. I sieropositivi dovevano nascondersi, era una caccia alle streghe. Eppure Cristiano era ammalato ma né io, né mio marito e né mio figlio ci siamo ammalati…

E oggi invece? Sembra che quello dell’Aids sia un ricordo lontano…
Oggi se ne parla poco. Troppo poco. Non si fa prevenzione. Se vent’anni fa c’era troppa angoscia, oggi c’è troppa leggerezza. Quando moriva un sieropositivo si doveva fare un funerale con una bara di metallo. Anche per Cristiano abbiamo dovuto farlo. Era una cosa terribile, un morto non può dare fastidio a nessuno. Ed è vero che per fortuna la malattia può essere tenuta sotto controllo e che le cure ti permettono di continuare a vivere. Dalla sieropositività all’Aids era un attimo, oggi no. Ma investire sulla prevenzione non sarebbe male…

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.