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Guerra

Ucraina, il dolore dei civili e un futuro che non sanno più immaginare

Valentina la mattina del 24 febbraio di due anni fa è stata svegliata dalle bombe: «Dalla finestra ho visto orrendi fuochi d’artificio». Nataliia Kavetska si è abituata alla guerra: «è terribile da dire perché non è una cosa normale». Vitaly vive in un villaggio vicino ad un fronte di guerra: «due missili hanno colpito la mia casa. Ma io vorrei avere l’elettricità e restare qui». L’Ucraina entra nel terzo anno di guerra e qui il 40% della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari ma i finanziamenti coprono solo il 13% dei bisogni

di Anna Spena

Valentina se la ricorda bene la mattina del 24 febbraio del 2022: «Mi hanno svegliata i bombardamenti», racconta. «Dalla finestra ho visto orrendi fuochi d’artificio». Valentina vive a Kalynove, nell’Oblast di Kyiv. «L’inizio della guerra ci ha costretto a fuggire. Siamo tornati quando la situazione si è calmata un po’: anche se le esplosioni e gli spari continuano per me è importante essere tornata a casa».

Vitaly, ha una sensazione precisa. «Sembra che io sia l’ultimo abitante di Veliky Procodil, un piccolo villaggio nell’Oblast di Kharkiv, a meno di dieci chilometri dal fronte», dice. «Non sono rimasto qui però tutto il tempo. Durante la prima occupazione non ho abbandonato la casa per paura che venisse occupata. Poi, visto l’intensificarsi dello scontro, ho deciso di fuggire. Quando il villaggio era più sicuro sono tornato indietro, a casa mia. Mi sono messo subito a lavorare per riparare i danni di due missili che hanno colpito il cortile. Se mi danno l’elettricità io sono pronto per restare».

L’edificio di Lilia danneggiato dagli incendi

Lyudmilla, invece, è a capo della comunità di Kalynovetskyi: «Con l’inizio delle ostilità a Kharkiv, circa 800 persone sono arrivate da noi, in fuga dai bombardamenti della città. Non siamo riusciti a fornire aiuti umanitari a tutte queste persone. Inoltre sono state immediatamente interrotte la fornitura di energia elettrica e di acqua. Siamo rimasti senza acqua per un anno perché le nostre torri idriche erano state bombardate. Il centro comunitario, l’asilo e perfino l’edificio del consiglio comunale sono stati colpiti direttamente. L’ambulatorio è stato gravemente danneggiato, di conseguenza, le persone sono state costrette a lasciare la nostra comunità».

Nataliia Kavetska ha 34 anni. «Ci siamo abituati alla guerra: è terribile da dire perché non è una cosa normale», racconta lei. Natalia dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina si è rifugiata in Italia dove ha vissuto per 8 mesi lavorando come mediatrice-linguistico culturale negli Spazi Donna WeWorld, luoghi di accoglienza e ascolto messi a disposizione anche delle donne ucraine e dei loro figli e figlie che hanno cercato un luogo sicuro lontano dalle proprie case e gestiti dall’organizzazione umanitaria di WeWorld. Poi è tornata indietro: «Se scatta l’allarme dobbiamo correre nei rifugi ed è capitato diverse volte di doverci fermare a lungo e che mio figlio studiasse insieme ad altri bambini in cantina. Nell’aria si sente il pericolo, anche solo durante una passeggiata vediamo le macerie dei palazzi», dice.


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Il 24 febbraio saranno due anni dall’invasione russa dell’Ucraina. E in questi 24 mesi di guerra abbiamo imparato a conoscere i nomi delle città: Kherson, Kharkiv, Donetsk, Lugansk, Mariupol, Odessa, Bakmut, Mykolaiv, Kramatorsk. E si sono fissate nella testa certe immagini: le file chilometriche nei punti di frontiera per lasciare l’Ucraina, Irpin e il suo ponte distrutto e quella marea umana di profughi bloccati in mezzo ai fronti sotto il tiro dei militari russi, i corpi martoriati e abbandonati in strada a Buca, il teatro bombardato di Mariupol e quella scritta “bambini” che non è servita a scongiurare i missili russi, la stazione di Kramatorsk e i civili morti sui binari mentre aspettavano un treno per scappare, le immagini satellitari di Soledar rasa al suolo e ancora Avdiivka, la città che nelle ultime settimane era diventata uno dei luoghi centrali della guerra tra Russia e Ucraina e che è stata conquistata dall’esercito russo. In due anni di guerra in Ucraina sono morti 10mila civili, e non si conosce il numero delle vittime militari. Oggi nel Paese 14,6 milioni di persone, il 40% dell’intera popolazione, ha bisogno di aiuti umanitari, ma i finanziamenti coprono solo il 13% dei bisogni (Unhcr). 3,3 milioni vivono nelle vicinanze del fronte, dove arrivano pochi aiuti perché l’accesso umanitario è difficile e non garantito.  In due anni 6 milioni di persone sono fuggite dall’Ucraina e 4 milioni sono sfollate all’interno del Paese.

«In questa nuova vita non riusciamo a pianificare nulla», continua Natalia. «Ci sono giornate tranquille ma a volte non è così. Io provo ad organizzare una vita normale: a volte andiamo a teatro, ogni settimana io e mio figlio guardiamo un film in italiano per non dimenticare la lingua. Proviamo a vivere al meglio anche se qualcuno prova a sopravvivere perché c’è anche la crisi economica: io spero di avere un futuro in Ucraina ma al momento non riesco a immaginarlo».

«Dopo due anni dall’inizio della guerra la popolazione ucraina continua a vivere l’impatto di un conflitto che, ancora, non vede una possibile fine. Due anni che avranno ripercussioni sul futuro di un’intera generazione, con bambine e bambini che vivono una quotidianità precaria senza continuità a scuola con la paura dei bombardamenti, uomini che avranno bisogno di aiuto per superare lo stress post traumatico, donne che hanno il peso della cura e della ricostruzione sulle proprie spalle. Il popolo ucraino sta vivendo una crisi collettiva che deve essere fermata, il rischio è che il Paese non riesca più a rialzarsi», spiega Guido Manneschi, responsabile Paese in Ucraina per WeWorld. 

Credit foto Alessandro Parente

WeWorld è arrivata in Ucraina durante le prime settimane della guerra. L’organizzazione offre supporto psicosociale agli adulti e ai minori, attività di sensibilizzazione sui rischi derivanti da mine e ordigni inesplosi sia nei villaggi che nei campi agricoli. È impegnata nella riabilitazione di strutture come serbatoi idrici a torre, servizi igienici, sistemi di filtraggio dell’acqua e impianti idrici di centri in centri medici e di riabilitazione. 


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«Forniamo», racconta Dina Taddia, consigliera delegata dell’organizzazione, «ai gruppi più vulnerabili assistenza finanziaria e contribuiamo alla risposta umanitaria per l’inverno, tramite la distribuzione ai più vulnerabili di legna e stufe elettriche, ma anche di kit invernali con giacche, maglioni, scarpe, guanti e coperte». 

L’ong ha uffici a Lviv, Kyiv e Kharkhiv, e da qui raggiunge gran parte degli Oblast del Paese: «In due anni», continua Taddia, «abbiamo sostenuto circa 230mila persone, tra loro 60mila minori. Lavoriamo a stretto contatto con quattro associazioni locali che conoscono bene le aree di intervento». Quando è scoppiata la guerra la vicinanza e l’attenzione per il popolo ucraino sono state altissime: «Dopo la fine delle guerre nei Balcani», dice Taddia, «una guerra è tornata a scuotere l’Europa». Il fattore di immedesimazione è stato forte: «Erano persone che avevamo una vita come la nostra e improvvisamente si sono ritrovate senza nulla e a dover dipendere dagli aiuti degli altri. E ora sono come ferme in un limbo senza avere la certezza di poter tornare a una vita normale, senza guerra. O senza sapere se potranno tornare nelle loro case, o magari senza sapere se quelle case sono ancora in piedi. L’incertezza sul futuro ritorna in tutte le persone che incontriamo».

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Credit foto apertura collettivo Gaze

 


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