Coprogettazione
Una smart city rurale: il Salento che innova e costruisce comunità
Contro spopolamento e turismo di massa, agricoltura sostenibile e welfare di comunità disegnano un futuro di sviluppo per il Sud. Viaggio nel Parco dei Paduli in provincia di Lecce per incontrare un modello di rigenerazione territoriale nato dalla terra bruciata e dalla forza della comunità

Un paesaggio fatto di alberi secolari e terra bruciata dal sole, popolato da poche migliaia di abitanti e senza grosse infrastrutture o servizi di rilievo, può essere considerato una smart city? La risposta è sì e arriva dal basso Salento, più precisamente dal Parco agricolo multifunzionale dei Paduli. Un’area di 5.500 ettari che si estende da Muro Leccese a Surano, da San Cassiano a Supersano, che più che un luogo è un’esperienza di comunità e rigenerazione innovativa del territorio, in cui si combinano agricoltura sostenibile e temi di carattere sociale come il contrasto allo spopolamento e al turismo di massa.
Un’esperienza nata dal basso
Il Parco dei Paduli non è un “parco istituito”, ma è frutto di una co-progettazione partita dal basso che poi si è trasformata in indirizzo politico per gli otto comuni del territorio. Tutto è partito nel 2003 per impulso di Laboratorio urbano aperto – Lua, associazione culturale del territorio che nel 2011 assieme ad Abitare i Paduli e ai comuni dell’area e con il sostegno di Regione Puglia ha avviato un modello sperimentale di gestione comunitaria del parco. Un’idea vincente che ha attirato l’attenzione di Fondazione con il Sud, il cui contributo economico (quasi tre milioni di euro) e organizzativo è stato fondamentale per lanciare, nel 2022, il progetto Santi Paduli: un intervento che grazie a una stretta alleanza tra attori pubblici e Terzo settore, mira a dare vita a un “welfare di comunità” rurale, potenziando la realtà sviluppatasi nei vent’anni precedenti attraverso la creazione della cooperativa agricola Benedetti Paduli e da quella sociale Santa Fucina.
«Questo progetto dimostra che mettendosi al fianco delle comunità è possibile immaginare per il sud un futuro fatto di lavoro dignitoso, di buon cibo come in questo caso e di opportunità», spiega Stefano Consiglio, presidente di Fondazione Con il Sud. «Sotto certi aspetti, ha ispirato il nostro piano triennale, nel senso che il nostro piano triennale punta a prendersi carico di un problema che è oggettivo, cioè lo spopolamento che riguarda il sud e che secondo alcuni sembra non risolvibile. Noi riteniamo che invece debba esserlo: il sud è popolato da 2.500 anni, non vedo perché nei prossimi 30 anni si debba spopolare». Per invertire la tendenza, però, serve individuare strategie e modelli virtuosi che incentivino le persone a rimanere qui e a fare figli. «Bisogna garantire due stipendi a famiglia. Incrementare il tasso di occupazione delle donne è una misura fondamentale per incrementare il tasso di nascita e al tempo stesso garantire la possibilità a chi vuole restare qui, così come serve un lavoro dignitoso per dare a chi se ne è andato la possibilità di tornare», aggiunge Consiglio.
Dal campo alla tavola, il cibo che fa bene alla comunità
Centrale in Santi Paduli è “La buona mensa”, il servizio di refezione pubblica che porta sulla tavola delle scuole dell’infanzia e primarie dei comuni coinvolti cibo a kilometro zero coltivato in maniera sostenibile. Il principio alla base dell’intero progetto, infatti, è che la rigenerazione del paesaggio dipende da buone politiche alimentari, dunque agricole e produttive. Più che un’attività economica, «coltivare è un atto di cura del paesaggio», suggerisce Mauro Lazzari, presidente della cooperativa Santa Fucina, tanto che il modo in cui noi vediamo il nostro paesaggio «è una risposta al nostro modo di vivere». Attraverso il “Menu parlante”, che riporta il nome di chi fornisce le materie prime e classifica i prodotti in base alla provenienza e alla certificazione, bambini e genitori sanno cosa arriva sulla loro tavola e, contemporaneamente, i più piccoli imparano fin da subito l’importanza di un’alimentazione sana e rispettosa dell’ambiente. Insomma, grazie al “Menu parlante” «si dà valore alle aziende agricole, cioè i veri cuori pulsanti di questa rigenerazione», sottolinea Lazzari.
A rendere possibile tutto questo è un insieme di persone che entusiaste, energiche e protettive, che non si sono arrese davanti alle difficoltà di abitare il basso Salento mentre il mondo là fuori corre sempre più veloce. Persone come Giuseppe Agrosì e sua moglie Monica, che a Supersano producono olio biologico e contribuiscono al ripristino del paesaggio ingrigito dalla Xylella. «Il ragionamento su come recuperare il territorio è partito osservando che Rocco, il nostro figlio più piccolo, quando faceva i disegni per la scuola disegnava sempre gli ulivi grigi», raccontano. Mettersi in gioco, però, non è stata una scelta scontata. «Con la Xylella ci eravamo visti mancare il terreno sotto i piedi e da parte delle istituzioni è mancata una linea guida, quindi siamo andati avanti per conto nostro», sospira Giuseppe. «Non è stato facile: in molti momenti volevamo abbandonare, soprattutto io. Volevo andare via non solo dalla Puglia, ma proprio dall’Italia». A convincerli a rimanere è stato l’incontro con un ospite di una casa vacanze che i due coniugi gestiscono. «Questo nostro ospite, che è di Milano ma poi ha comprato casa qua nel Salento, davanti alla mia insistenza di voler andare via mi diceva: “Ma dove vai? Io ho girato il mondo e se ho comprato casa qui, anche se ci sono tante cose da migliorare, ci sarà un motivo. Quindi devi rimanere e combattere”», continua Giuseppe.

(foto di Papel Studio)
Se gli Agrosì qui erano e qui hanno deciso di rimanere, c’è anche chi dopo essersene andato, ha deciso di tornare. «Mi sono laureato in lettere a Bologna, ma già quando sono partito avevo la consapevolezza di voler tornare per dare una nuova forma all’agricoltura», racconta Giacomo Cavalera, 32 anni, che lavora presso l’orto biologico Capiverdi di Ruffano ed è fondatore dell’associazione Seminazioni, che promuove l’agricoltura sostenibile. «Sono cresciuto in una famiglia di contadini giardinieri, ascoltando gli anziani che raccontavano di una socialità del lavoro nei campi che si è persa», spiega. Il suo obiettivo è quello di recuperarla e migliorarla: «Un tempo era un ambiente chiuso, perché alla fine passavi le giornate solo con la tua squadra di lavoro e basta, quindi era poco stimolante». Per questo, Giacomo ha cercato con la sua associazione di ricreare quella socialità più aperta che aveva incontrato a Bologna. «In Salento c’è tanto che si può fare, basta solo la voglia e l’intraprendenza di avviare dei processi. Quello che manca sono solo i luoghi di incontro, di aggregazione».

Serve, però, anche riavvicinare i giovani al lavoro nei campi. «Purtroppo dai nostri genitori ci è sempre stato mostrato come super faticoso e per gente stupida, della serie “O vai a scuola ti mando a zappare” e questo automaticamente ha allontanato le persone», riflette Giacomo. Recuperando invece la dimensione di socialità si può invertire la narrazione: «Per esempio, noi facciamo la festa della raccolta del grano, dove lo raccogliamo a mano, quindi di base è faticoso, però mettiamo i Sound System e quindi lavoriamo con la musica. Raccogliere il grano in una situazione del genere, con tanta gente insieme è diverso, non sono solo due o tre persone che si ammazzano di lavoro. Chiaramente, non lo si fa con l’ottica della produzione, ma è un modo per fare vedere che si può vivere un altro tipo di agricoltura».
Gabriele Pirelli, 36 anni, titolare del Pastificio Agrimò, ha invece interrotto i suoi studi all’Università Bocconi di Milano perché con un amico aveva avviato in Lussemburgo un business di export alimentare. Nel 2012, però, è tornato nel suo Salento (è anche lui di Ruffano) dove ha prima avviato un piccolo forno per la produzione di pane e poi nel 2014 si è ampliato mettendo in piedi una vera e propria azienda agricola, che lavora con rispetto dell’ambiente e della maniera prima il grano autoprodotto in modo biologico. «Spero di lasciare un domani in eredità un metodo di produzione che vada a valorizzare i prodotti del territorio e che vada contro questa globalizzazione di cui bisogna prendere le cose buone e lasciare quelle cattive. Non va bene che la globalizzazione ci imponga di mangiare prodotti alimentari che arrivano dall’altra parte del mondo a un costo inferiore di quello che costa il prodotto locale».

(foto di Francesco Crippa)
Una ribellione “gentile” contro i ritmi della società
Oltre a loro, ci sono decine e decine di aziende e di storie di persone che hanno deciso, anzi decidono ogni giorno, di dare concretezza a un modo di vivere diverso, in cui la comunità è imprescindibile. «Io siamo», per usare le parole di Giuseppe Agrosì, e non «io sono», perché solo con l’unione di privati, pubblico e terzo settore è possibile rigenerare un territorio in ogni sua componente, dal suolo ai gruppi umani che lo popolano. Questa dimensione, unita alla proposta di produzione e consumi sostenibili, alla riscoperta del paesaggio culturale locale e all’offerta di turismo lento e a basso impatto ambientale, rende Santi Paduli una sorta di ribellione “gentile” ai ritmi di una società di cui sempre più emergono le sfaccettature tossiche.
VITA ha visitato il progetto Santi Paduli in un viaggio stampa organizzato da Fondazione con il Sud. In apertura, il gruppo incontra Giuseppe e Monica Agrosì a Supersano (foto di Papel Studio).
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