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Pacificatori in campo: viaggio nei conflitti dove la società civile si è “messa in mezzo”

L’ingerenza umanitaria non è una teoria, ma una pratica concreta. Lo dimostrano dieci esperienze che raccontiamo nel numero di VITA magazine di febbraio dedicato a “quelli che si mettono in mezzo”. Un viaggio dalle guerre jugoslave agli accordi di Pace in Mozambico. E poi ancora in Sud Sudan, Colombia, Haiti, Afghanistan e Siria. Fino al lavoro complicatissimo e fondamentale che le realtà stanno facendo in Ucraina e nella Striscia di Gaza

di Anna Spena

Nel secondo capitolo del numero di VITA magazine di febbraio “Mettersi in mezzo si può” raccontiamo dieci esperienze di ingerenza umanitaria in corso o concluse in modo positivo, grazie alla competenza di attivisti, cooperanti e operatori umanitari in grado di mediare per davvero fra le parti. Un viaggio dal Medio Oriente all’Est Europa, dall’Africa fino al Sudamerica. 

In questo momento nel mondo sono in corso 50 guerre, mentre gli eventi conflittuali complessivamente a fine 2023 sono stati 151mila. Il risultato? Quasi 170mila morti. È la guerra mondiale a pezzi tante volte evocata da Papa Francesco. Gaza e l’Ucraina sono solo la punta dell’iceberg, quella più raccontata e più vicina a noi. Il capitolo due del magazine è nato per raccontare non solo le sofferenze del mondo in guerra, ma anche le esperienze di chi prova a mettersi in mezzo per creare ponti fra le parti in conflitto. Ecco uno stralcio delle dieci esperienze raccontate.

Qui Gaza

«Cessate il fuoco sulla Striscia di Gaza» e ancora «liberate gli ostaggi, liberateli senza condizioni». Sono questi gli slogan che abbiamo sentito, negli ultimi quattro mesi, dalle piazze di tutto il mondo: da New York a Londra, fino a Tel Aviv. E l’immagine di queste piazze serve a ricordarci che – anche quando le posizioni sono iper polarizzate, verso una o l’altra parte, come sta accadendo in questa guerra tra Israele e Hamas – la parola pace deve rimanere una parola possibile. A scendere in piazza insieme, infatti, sono singoli cittadini, associazioni della società civile e anche realtà miste fatte da ebrei e palestinesi che vogliono l’esistenza pacifica di entrambi i popoli. Tra le voci che troverete nell’articolo su Gaza c’è quella della Federazione Internazionale della Croce Rossa e quella della Croce Rossa italiana. E ancora quella di realtà come Standing Together, movimento che mobilità cittadini ebrei e palestinesi in Israele che vuole la liberazione dei territori palestinesi occupati e vuole costruire un ponte di pace tra i due popoli; Woman Page Peace, associazione composta da donne ebree e arabe, musulmane, cristiane, druse e beduine che insieme chiedono accordi di pace; B’tselem, centro israeliano per i diritti umani nei territori occupati che si batte per un futuro in cui la libertà sia garantita a tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. 

Qui Ucraina

«Due anni fa, subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, abbiamo aperto tavoli di dialogo in ogni città per non far vincere la guerra», racconta Angelo Moretti, tra i portavoce del Mean – movimento europeo di azione non violenta. «Non potevamo aspettare che si diffondesse l’odio tra le comunità. In ogni grande o piccola città italiana vivono sia russi sia ucraini, soprattutto donne. Siamo partiti dai nostri territori per far incontrare e parlare queste donne. È bastato? No. Ma crediamo che lo sforzo verso la pace rimanga uno sforzo necessario. E quello sforzo lo dobbiamo fare noi come società civile perché la politica come strumento di pace ha fallito». In due anni il Mean ha lavorato a stretto contatto con la società civile ucraina, ha aperto a Brovary un villaggio della pace, ha promosso gemellaggi tra i comuni ucraini e quelli italiani. «La nonviolenza attiva rimane uno strumento indispensabile per costruire un futuro possibile. Stiamo continuando a lavorare per la realizzazione dei corpi civile di pace europei». Sono tante le reti nate in questi due anni, tra loro anche “Stop the War Now” che è fisicamente presente in Ucraina con una delegazione di volontari: «Vivere insieme a loro», raccontano, «permette di comprendere il conflitto partendo dal punto di vista di chi soffre a causa della guerra e di capire come poter costruire insieme la pace». 

Kiev, ottobre 2023. Un momento della preghiera interreligiosa per la pace. Foto Piero Vitti

Qui Bosnia-Erzegovina e Kosovo

«Quella in Bosnia — Erzegovina fu la più feroce delle guerre Jugoslave», racconta Stefano Piziali, direttore di fondazione Cesvi. L’ong, fin dai primi mesi del conflitto, era entrata nel Paese per aiutare la popolazione. «In quella guerra», continua Piziali, «più di 200mila persone furono uccisi». Persone che facevano parte dei quasi 24 milioni che abitavano quella che una volta era la Jugoslavia. Una terra che copriva oltre 250mila chilometri quadrati. Un luogo in cui le religioni dalla chiesa ortodossa a quella cattolica fino all’Islam sunnita si mescolavano. Vivevano tutti sotto la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Dieci è il numero di anni in cui una serie di secessioni e di guerre sanguinose, partite nel 1991, hanno trasformato la Repubblica Socialista nel territorio come lo conosciamo oggi. Qui Cesvi dopo la fine del conflitto ha avviato «un progetto di ricostruzione di centinaia e centinaia di case», continua Piziali. «Abbiamo parlato con i rappresentanti di tutte le comunità delle zone dove eravamo presenti chiedendo che gli sfollati, di etnia diversa, potessero tornare nel loro luogo d’origine, in pace». Nel numero raccontiamo anche la fine di quel decennio drammatico con la guerra in Kosovo. Il conflitto era iniziato nel febbraio 1998 tra le truppe federali jugoslave e l’esercito di liberazione del Kosovo (Uck, l’ala militare del movimento per l’indipendenza dalla Federazione jugoslava). Qui l’ong umanitaria Intersos ha portato aiuti umanitari alla popolazione ma una volta finita la guerra andava costruita la pace. «Ma come si costruisce la pace tra chi si è sparato addosso?», racconta Nino Sergi, presidente emerito dell’organizzazione. «La guerra», ricorda Sergi, «aveva colpito e devastato ciò che è simbolo della storia, cultura, religione e identità dell’altro. I nostri rapporti di fiducia con tutte le comunità ci hanno convinti che potevamo contribuire alla ripresa del dialogo dopo le devastazioni». Nel 2000 Intersos sceglie di avviare un programma «di alto valore simbolico», continua Sergi: «In Kosovo moschee e chiese cristiano-ortodosse erano state danneggiate e incendiate con maggiore accanimento rispetto ad altri obiettivi, proprio perché simboli dell’appartenenza all’una o all’altra collettività». L’ong ha lavorato ai progetti di valorizzazione del patrimonio culturale kosovaro serbo-ortodosso e ottomano-islamico: «Imam e monaci si sono incontrati, come mai prima, non è stato facile, sedendosi in più occasioni allo stesso tavolo».

Qui Siria

Fondazione Avsi nel pieno della guerra civile è arrivata in Siria. «L’emergenza umanitaria coinvolge 15,3 milioni di persone», spiega Marco Perini, regional della fondazione. «Abbiamo risposto ai bisogni umanitari, ma la pace non si costruisce solo con la sussistenza, ma si costruisce agevolando la convivenza e lavorando per obiettivi comuni. Nel 2017 il 60% degli ospedali siriani non funzionava più. Come Avsi siamo stati chiamati da Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, per aiutare tre ospedali cristiani, uno ad Aleppo e due a Damasco. Il progetto l’abbiamo chiamato “Ospedali Aperti”. In questi anni abbiamo curato 135mila persone e abbiamo allargato il nostro supporto anche a cinque dispensari tra la periferia di Damasco, Latakia e Swaida dove distribuiamo gratuitamente medicine a chi ne ha bisogno. Mentre rispondiamo a un bisogno sanitario proviamo a mandare un messaggio: siete tutti uguali. Cristiani, sunniti, sciiti. Negli ospedali non ci sono stanze separate o corsie diverse in base al credo religioso o all’etnia, concepitevi come persone e basta. Tutte le nostre iniziative provano a ricucire il tessuto sociale distrutto da anni di conflitto».

Qui Afghanistan

Medici di guerra, inviati di pace: se c’è un’azione che tiene insieme tutto il lavoro di Emergency è quella di curare chi si ha davanti. E non è importante sapere da quale parte del conflitto arrivi. La storia dell’Afghanistan è tutta puntellata di momenti fragili, conflitti interni ed esterni. Ma oggi, quando diciamo Afghanistan, pensiamo ai talebani. «I talebani erano considerati
dei mostri
, Gino Strada fu l’unico a sostenere che se porti aiuto, e
solo aiuto, senza armi o altri fini è possibile lavorare anche in territori considerati impossibili
. Nessuno diede fiducia a quell’intuizione lì, eppure il fondatore di Emergency li incontrò. Lo ascoltarono e, dopo quei colloqui, Emergency aprì a Kabul il primo ospedale». A restituire questo racconto è Pietro Parrino, oggi capo delle operazioni dell’organizzazione. Oggi Emergency lavora in Afghanistan con tre ospedali, un centro di maternità e una rete di oltre 40 Posti di primo soccorso. 

Qui Haiti

Fondazione Francesca Rava — Nph Italia da oltre 20 anni gestisce l’ospedale Nph Saint Damien, unico pediatrico ad Haiti, la struttura assiste 80mila bambini l’anno. «Ad Haiti», racconta  la presidente Mariavittoria Rava, «la situazione non è mai stata così fuori controllo e così drammatica. La capitale Port-au-Prince è in mano alle gang, bande armate di giovani haitiani, bande comandate dalle faide del governo, con l’unico obiettivo del guadagno facile. La violenza non risparmia neanche gli operatori umanitari: «Ma noi non ci arrendiamo», spiega Rava. «Dobbiamo testimoniare quello che succede, dobbiamo testimoniare che c’è un bisogno grande, e portare avanti le richieste di aiuto di chi una voce non ce l’ha». Il conflitto di Haiti è diverso e non si tratta di far dialogare le parti perché «è un tutti contro tutti», racconta Rava. «Padre Rick, che gestisce l’ospedale, lavora solo con haitiani. E lui tiene un dialogo aperto con tutti, ciò significa che parla con le gang. Va da queste persone e prova a farle ragionare “Perché hai rapito?”, gli dice. Ma ancora di più gli chiede “cosa posso fare per te?”, “di cosa hai bisogno”?».

Qui Colombia

In Colombia nella comunità di Pace di di San José de Apartadó si vive senza armi e con una sola regola: la nonviolenza. Questa comunità contadina ha scelto, oltre 25 anni fa, di resistere alla guerra in modo pacifico e di essere neutrale di fronte agli attori armati. Dove neutrale non ha mai significato tenersi fuori del conflitto, ma starci in mezzo, per far vedere a tutti che un modo di vivere diverso non solo esiste, ma è possibile, anche quando è difficile. «Il conflitto in Colombia», racconta Silvia De Munari, volontaria internazionale di Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII che dal 2013 accompagna la Comunità di Pace, «è uno dei più longevi di tutto il Sudamerica, è fatto da tanti fronti che si combattono, e tutti ambiscono alla stessa cosa: diventare i padroni del narcotraffico e controllare terre strategiche per l’accaparramento di risorse naturali. Come volontari e volontarie di Operazione Colomba siamo state chiamate a vivere all’interno della Comunità di Pace con l’obiettivo di tutelare l’esperienza di questa comunità che adotta modalità nonviolente di resistenza alla violenza armata. Difendere queste comunità significa difendere una risorsa preziosa per il futuro del Paese e il raggiungimento di una pace vera».

Qui Mozambico

Mozambico, 32 milioni di abitanti «e più della metà», spiega don Angelo Romano, membro dell’ufficio relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, «è nata dopo il 1992: io la chiamo la generazione della pace». Torniamo a quell’anno, precisamente al 4 ottobre del 1992. Siamo a Roma e Joaquim Chissano, presidente mozambicano e segretario del Fronte di liberazione del Mozambico e Afonso Dhlakama, leader della Resistenza Nazionale Mozambicana, firmarono un accordo generale di pace che metteva fine a 16 anni di guerra civile. «La firma concludeva un lungo processo negoziale che si è svolto nella sede della Comunità di Sant’Egidio», dice Romano.  Gli accordi di pace del Mozambico sono uno dei casi più espliciti dove a fare la differenza non sono stati i Governi ma la società civile, ma come si è arrivati a questo? «La verità?», dice Romano, «per esclusione. Il Mozambico era un Paese dimenticato da tutti. E come comunità abbiamo detto: “dobbiamo farlo noi”. E siamo partiti dall’aiuto umanitario per arrivare all’interlocuzione con le parti in conflitto».

Qui Sud Sudan

È lo Stato più giovane del mondo, è nato nel 2011, dopo un referendum che ne ha sancito l’indipendenza dal Sudan. Ci vivono Dinka, Nuer, Azande, Bari, Shilluk, Anyuak e altre decine e decine di gruppi etnici. Ma dopo solo due anni dalla formazione come Stato autonomo, in Sud Sudan è scoppiata una sanguinosa guerra civile. «Però qui», racconta Jacopo Rovarini, public health specialist di Amref Health Africa, la più grande ong sanitaria africana, «il 57% delle persone ha meno di 18 anni. E la pace può ripartire da e con loro, nonostante le differenze etniche, è più forte la voglia di vivere senza conflitti, lo sappiamo perché l’abbiamo visto». Nel pieno di un’altra guerra civile, prima che il Paese sancisse la dipendenza dal Sudan, Amref aprì, nel 1998, il Maridi Health Science: «un centro di formazione sanitaria», racconta Rovarini, «che negli anni anni è diventato per tutti noi un simbolo di resistenza e di speranza, perché è rimasto sempre aperto e perché gli operatori sanitari che abbiamo formato in quella scuola appartenevano tutti a gruppi etnici diversi, in conflitto tra loro».

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Nella foto di apertura un volontario della Mezzaluna Rossa palestinese nella Striscia di Gaza


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