Giustizia
Claudia Caramanna, la procuratrice che aiuta le donne e i loro figli ad allontanarsi dai contesti mafiosi
Le minacce non l'hanno mai fermata, anzi le hanno dato la conferma di essere sulla strada giusta. Per la procuratrice dei minori di Palermo, Claudia Caramanna, dare alle donne che vivono in contesti mafiosi la possibilità di allontanarsi per rifarsi una vita insieme ai propri figli è da sempre una missione, più che un lavoro, convinta che solo in questo modo si può spezzare quel modello femminile che, di generazione in generazione, tramanda una cultura sub mafiosa di sottomissione

Non sono poche le donne che negli anni si sono ribellate alla mafia con denunce vere e proprie, ma anche con prese di posizione che hanno dato una precisa direzione alle loro vite.
Solo per fare qualche esempio, emblematiche le storie di Lia Pipitone, uccisa il 23 settembre del 1983 per avere contestato la vita alla quale era stata destinata dal padre, boss dell’Arenella, borgata di Palermo ad alta densità mafiosa; Rita Atria, la collaboratrice di Paolo Borsellino, che si suicidò alla giovane età di 17 anni quando seppe che il magistrato era stato fatto saltare in aria in via D’Amelio; Lea Garofalo, testimone di giustizia, vittima della ‘ndrangheta, assassinata a Milano nel 2009 per il suo impegno nella lotta contro la criminalità organizzata. Ma ci sono anche figure femminili che hanno testimoniato il loro distacco dalla cultura mafiosa o hanno subito la perdita dei loro cari, vittime di mafia, come Francesca Serio, nota per aver combattuto con lo scopo di far arrestare i responsabili della morte del figlio, il contadino Salvatore Carnevale, ucciso per aver fondato a Sciara, in provincia di Palermo, la prima sezione del sindacato; Michela Buscemi, nota per essersi costituita parte civile al Maxiprocesso di Palermo, dopo gli omicidi dei fratelli Salvatore e Rodolfo da parte di Cosa Nostra. Dal 1878 ad oggi sono state 133 le donne vittime della violenza mafiosa, 36 delle quali minorenni. Donne che, con coraggio e determinazione, hanno lottato contro il potere economico, politico e sociale delle mafie, diventando esempi di emancipazione e di affrancamento dagli ambienti criminali.
Non stupisce, quindi, che chi sostiene questi moti di ribellione venga preso di mira tentando di piegarlo. A maggior ragione se donna, come la procuratrice dei Minori di Palermo, Claudia Caramanna, che, tra le inchieste che ha avviato e sta portando avanti, sta lavorando a quella per togliere la responsabilità genitoriale ai capi di cosche mafiose, allontanando i figli dalle famiglie al fine di garantire loro un futuro diverso e migliore. Proprio alle donne, la Caramanna ha chiesto e chiede di tagliare con le famiglie di origine per dare un futuro ai loro figli. Come alle mogli dei 180 boss arrestati nell’ultimo maxi blitz antimafia, spiegando loro che si possono scegliere percorsi diversi da quelli dei padri. Così come del resto previsto dal protocollo “Liberi di scegliere”, pensato e messo in atto in Calabrie e in Sicilia dal giudice Roberto Di Bella, presidente del Tribunale di Catania.
Da qui una serie di avvertimenti che hanno reso necessario metterla sotto scorta: nel 2022 una lettera anonima con minacce di morte nella cassetta delle lettere di casa; ad agosto del 2024 un biglietto con il messaggio: «Devi smetterla di occuparti dei figli degli altri»; lo scorso giugno un ritaglio di giornale con la foto di Giovanni Falcone e la scritta “Caramanna”, segnato con una croce grande e tre piccole.
Dottoressa Caramanna, come si spiega tutto questo?
Per la prima volta, nel distretto della Corte d’appello di Palermo, che comprende anche le province di Trapani e di Agrigento, abbiamo iniziato a occuparci dei figli appartenenti alla criminalità organizzata, con un’azione sistematica e maggiormente incisiva. Ciò è stato possibile grazie anche alla stipula di un protocollo d’intesa, nel giugno del 2023, il primo nel nostro territorio, con il Procuratore Generale di Palermo, Lia Sava, e con il Procuratore di Palermo, Direzione Distrettuale Antimafia, Maurizio De Lucia. L’accordo prevede un significativo impegno della Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ad acquisire, anche con l’ausilio delle forze dell’ordine che hanno compiuto le indagini, informazioni riguardanti il nucleo familiare dei soggetti sottoposti a indagini, verificando l’eventuale presenza di soggetti minorenni.
E cosa succede?
Per ogni nucleo familiare si iscrive un procedimento civile e si procede a verificare la condizione dei minori, mediante accertamenti socio-familiari sui componenti del nucleo, con l’acquisizione di informazioni anche presso le scuole in cui sono iscritti i minori. In moltissimi casi, purtroppo, si registra una risulta discontinua, se non un vero e proprio abbandono scolastico, soprattutto in relazione a ragazzi in fase preadolescenziale che, in seguito alle continue bocciature, si ritrovano a 15-16 anni a non avere ancora superato la seconda media.
Cosa emerge, inoltre, dalle segnalazioni che vi arrivano dalla scuola o dai vostri accertamenti diretti?
Riscontriamo spesso casi di ragazzi che a scuola hanno comportamenti disfunzionali e che, in particolare, assumono atteggiamenti da cosidetti “bulli”, sono poco rispettosi delle regole, diventano difficilmente gestibili da parte degli insegnanti. Anche i comportamenti non corretti nei confronti dei compagni sono per noi campanelli d’allarme. Nei casi di bambini più piccoli, inoltre, effettuiamo anche accertamenti che mirano a verificare in che modo sono accuditi dalla coppia genitoriale, se sono conosciuti e seguiti dal pediatra, ovvero se sono in regola con le vaccinazioni, se presentano segni di trascuratezza, scarse condizioni igieniche. Gli accertamenti sono finalizzati, in ogni caso, ad accertare lo stile di vita del nucleo, soprattutto nell’ eventualità in cui il padre è in stato di detenzione. Purtroppo, in alcuni casi, anche la madre è coinvolta nelle indagini a carico del marito o compagno. Si verifica, poi, quali sono i proventi da cui la famiglia trae sostentamento. Nella maggior parte dei casi, i nuclei familiari oggetto degli accertamenti, sono destinatari di assegno di inclusione e di altri assegni familiari, con entrate mensili che superano anche i 2.500 euro, a cui si aggiungono gli “aiuti” che provengono dal “contesto di appartenenza”. Acquisite, in via preliminare, queste informazioni, si procede all’ascolto delle mamme oppure, qualora queste siano anch’esse detenute, delle nonne affidatarie o delle zie, per acquisire ulteriori elementi utili a stabilire la situazione della famigliae le condizioni di vita dei minori.
Quale tipo di atteggiamento hanno le donne quando le convocate?
Già in fase di convocazione esprimono spesso disappunto e mostrano un atteggiamento di ostilità nei confronti della magistratura. Tentano di descrivere un “quadro idilliaco” dei loro figli, raccontando storie molto distanti dalla realtà. Quando, per esempio, poniamo loro il problema della frequenza scolastica, rispondono che il figlio sta comunque benissimo, anche senza frequentare la scuola. Se è stato bocciato più volte, sminuiscono la circostanza, affermando che sarà reiscritto a scuola e hanno comunque sempre una “risposta pronta” da offrire, che è sempre volta a eludere il problema. Nei casi, invero più rari, di arresto delle madri dei minori, coinvolte nello spaccio di crack, le audizioni sono state più complesse da gestire anche perché spesso i genitori dei minori, oltre che spacciatori, sono assuntori di sostanze stupefacenti.
Cosa succede dopo che avete sentito le madri?
Valutiamo tutti gli elementi acquisiti in seguito agli accertamenti socio-familiari e, nei casi più gravi, provvediamo a mettere in protezione i minori, allontanandoli, almeno temporaneamente, dal contesto familiare. Ovviamente, diamo sempre l’opportunità alle mamme di allontanarsi dal territorio unitamente ai figli minori, spiegando loro l’importanza di staccarsi insieme ai figli dal contesto familiare e territoriale. Accade spesso che le donne appartenenti a contesti di criminalità organizzate si sentano in qualche modo predestinate a questo tipo di vita. Alcune hanno tre o quattro figli che non hanno mai conosciuto il padre, quindi il rapporto è sostanzialmente inesistente, viene gestito dalle “madri” attraverso le visite all’interno delle case di reclusione o le videochiamate.
E, quando lei fa rendere conto di tutto questo alle donne che incontra, cosa rispondono?
Mi dicono che i bambini sono comunque “legatissimi al papà” e che va tutto bene. Proviamo a farle riflettere sullo stile di vita che conducono, sulla responsabilità e sul peso di “crescere” da sole 4 o 5 figli, in assenza del padre. Poi scopriamo che in carcere ci sono anche il nonno o lo zio, detenuti per gli stessi reati. Proviamo a interrompere quello che sembra un destino ineluttabile.
Ma ci sono state donne che hanno chiesto aiuto?
A me personalmente non è mai capitato di donne che mi abbiano chiesto: “Salvi mio figlio”. Assolutamente no. Posso, però, dire che siamo intervenuti sulla vicenda delle donne che hanno favorito la latitanza di boss di notevole caratura criminale. Ce n’è stata una che ha iniziato un percorso con “Liberi di scegliere”. Tutto ancora in itinere, ma ha manifestato la sua disponibilità. Poi c’è qualche mamma che ha detto: “Io per i miei figli farei di tutto”. Quando, però, le abbiamo chiesto se sarebbe stata eventualmente disponibile ad allontanarsi con i suoi figli dal quartiere in cui abitava, ha risposto: “No, io aspetto mio marito. Lui non ha fatto niente, la giustizia l’ha ingiustamente arrestato”. C’è, infine, chi accetta di allontanarsi fuori dalla Sicilia e di essere inserita con i figli in comunità protette. Una percentuale minima, ancora troppo bassa, ma comunque significativa.
C’è una frase, un imput che può convincere queste donne a cambiare vita?
Cerchiamo sempre di fare comprendere loro che la Procura per i minorenni è un’istituzione “per i minori”, un ufficio che vuole fornire un aiuto, non è un’istituzione contro le famiglie o contro i figli o contro i mariti. Tutto il contrario. Cerchiamo, poi, di ascoltare le storie di queste donne, ponendoci in una posizione “non giudicante”. Alcune donne riescono a fidarsi e allora raccontano che spesso sono cresciute senza un padre, magari anche lui detenuto da tutta la vita. Cerchiamo di farle riflettere e comprendiamo che probabilmente non hanno mai realmente riflettuto sulla loro vita, perché non hanno avuto nessun interlocutore che abbia dato loro questa chiave di lettura e abbia fornito loro diverse prospettive di vita. Questo perchè vivono in un contesto in cui c’è una subcultura mafiosa, quindi è l’unica strada che conoscono. Ripropongono i modelli che hanno avuto nella loro infanzia, un modello femminile che si tramanda di generazione in generazione. E che va cambiato, va spezzato, perché la donna è il fulcro, il centro della famiglia, nel bene o nel male, e può salvare la vita dei figli, può distoglierli da un destino quasi ineluttabile.
Qual è la cosa più bella che si è sentita dire o la soddisfazione che l’ha ripagata dal suo impegno e dalle note conseguenze?
Le racconto la storia di una donna che ho incontrato due volte e che, la seconda volta, mi ha detto che aveva riflettuto su quello che c’eravamo dette nel corso del primo incontro. Voleva ringraziarmi per avere dato un po’ di luce alla sua vita. Anche lei era una di quelle donne che devono parlare con i propri figli e spiegare l’assenza del padre, cosa affatto semplice, soprattutto se sono molto piccoli. Molto spesso queste donne non dicono ai bambini che il padre è detenuto, ma raccontano che sta fuori per lavoro; per cui, anche quando lo vanno a trovare in carcere, dicono ai bambini che quello è il luogo in cui lavora il loro papà. Non è facile, anche perchè, una volta cresciuti, a 13-14 anni, la realtà può facilmente venire a galla. La verità rende forti mentre, menzogna su menzogna, si costruiscono castelli che poi crollano inesorabilmente.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.