Comunità educanti

La droga, le rapine, poi la folgorazione per il teatro: «Così rinasco a nuova vita»

Le storie di Pasquale e Aldo, ospiti della comunità Dianova a Ortacesus. Un laboratorio della compagnia Cada Die Teatro, all'interno del progetto nazionale “Per Aspera ad Astra”, sta dando loro la possibilità di costruirsi un futuro attraverso la cultura, l'arte e la bellezza

di Luigi Alfonso

«Salire sul palco mi ha fatto capire tante cose su di me, sul mio passato e sul mio futuro. Se me ne daranno l’opportunità, potrei proseguire con il teatro in maniera più impegnativa». Pasquale ha 42 anni e un sorriso contagioso, nonostante una vita tormentata che lo ha portato a commettere una serie di reati, ora scontati. Da nove mesi segue un percorso di ricostruzione personale alla comunità terapeutica Dianova, a Ortacesus, un piccolo paese a mezzora da Cagliari. Ed è lì che ha avuto modo di imbattersi nella compagnia Cada Die Teatro, una delle più rinomate della Sardegna, che da decenni porta avanti con successo progetti di inclusione sociale nell’ambito dell’area penale. Nei giorni scorsi, con uno spettacolo al teatro comunale di Ortacesus, si è concluso il percorso inserito nel progetto nazionale “Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Sette ospiti della comunità Dianova, insieme alle operatrici Anna Serra e Cristina Cabiddu del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti – Cpia 1 di Cagliari, hanno portato in scena l’esito del laboratorio teatrale “Sulla faccia della terra”, condotto dai registi e attori Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu. E lo hanno fatto con un testo molto impegnativo: lo spettacolo si ispirava all’ultimo romanzo di Giulio Angioni, scrittore e poeta, certamente il più grande antropologo sardo (deceduto nel 2017). Una storia di resilienza che arriva da un passato lontano ma richiama la realtà di questi tempi di guerra. Una storia di uomini e donne che nel 1258, dopo l’assalto e la distruzione da parte dei pisani della città di Santa Igia (la parte dell’antica Cagliari fuori dalle mura del Castello fortificato), si salvano fingendosi morti tra i morti, rifugiandosi poi in un’isoletta dello stagno antistante dove, fino ad allora, venivano relegati i lebbrosi. Protetti dalla paura del contagio, danno vita a una piccola comunità su basi paritarie tra uomini e donne di diversa provenienza sociale, religiosa e geografica, sfruttando le risorse dello stagno e le capacità di ciascuno.

In queste immagini, alcuni momenti dello spettacolo a Ortacesus

Due storie simboliche

«Ero già stato in comunità tra il 2017 e il 2018», racconta ancora Pasquale. «Ma in quell’occasione cercai un’alternativa al carcere, dov’ero finito per traffico di droga. Stavolta è stata una scelta ponderata, e proprio per questo è più dura: perché ti costringe a metterti in discussione ogni giorno. Ho fatto tanti sacrifici e mi sono posto degli obiettivi, in parte ancora da raggiungere fuori: su tutti, la riconciliazione con la mia famiglia, mio figlio, la mia compagna. Tra un mese terminerò, spero di cominciare un capitolo più vincente della mia vita. Gli assistenti dei servizi sociali non credevano ai loro occhi: quando ho comunicato la mia scelta di ritornare a Dianova, pensavano che stessi per essere rinviato a processo per fatti precedenti. Invece ho soltanto voluto dare un taglio netto con quello che c’è nella società di oggi: il crack è sempre più diffuso, anche tra bambini di 13 anni, che ti porta via l’anima e ti strappa a tutto e tutti, i genitori, i tuoi amici. Fai cose assurde. Io, anni fa, a causa della droga ho perso i miei cari e il lavoro. E mi è pure andata bene con alcuni reati. Questo lungo periodo mi è servito a fare un po’ di ordine nella mia vita. Il progetto con Cada Die è stata la ciliegina sulla torta. Considero i registi Mascia e Piludu due missionari; ci hanno preso per mano e combattuto con noi ogni giorno, tra alti e bassi, affrontando i nostri fallimenti come due fratelli non giudicanti».

Si ferma alcuni istanti, sopraffatto dalla commozione. «Per chi, come me, ha fatto uso di sostanze stupefacenti, è importante fare altro, qualcosa di nuovo», riprende. «Mi sono trovato di fronte a un bivio: da una parte c’era la strada più facile che conoscevo benissimo ed era quella della delinquenza, della malavita e della strada; l’altra è molto più difficile, non la conosciamo e ci costringe a impegnarci a fondo, anziché andare sul sicuro. Queste attività ci hanno messo nelle condizioni di orientare la testa su altro».

Al suo fianco siede Aldo, monzese di 53 anni, da cinque mesi a Dianova. «In precedenza sono stato a San Patrignano, dal 2003 al 2005, poi ho girato in altre comunità sino ad arrivare a Ortacesus», spiega. «Questa volta avevo toccato il fondo, mi ero trovato in mezzo alla strada come un barbone. Non era la mia vita, non l’avevo cercata eppure mi ero ritrovato a usare l’eroina. Dopo una settimana sotto i ponti, ho cercato di suicidarmi. Mi hanno salvato, ho capito che dovevo fare qualcosa. L’esperienza del carcere risale al periodo dal 1992 al 2001. Avevo iniziato a fare il delinquente quasi per gioco, perché mi dava adrenalina pura. La droga mi ha rovinato e portato a commettere furti, rapine, ricettazione. Quando sono entrato a Dianova, ho chiesto subito che mi mettessero a fare qualcosa di motivante e interessante. Provenivo da una esperienza di danza, fatta con una mia ex compagna che era ballerina professionista, dunque la proposta di Cada Die era perfetta per rimettermi in gioco. Era l’unico modo, come ha detto Pasquale, per lasciare la strada conosciuta e cercare un percorso nuovo. All’inizio avevo molta ansia, salire sul palco non è stato facile, ma poi si è rivelato un cammino entusiasmante. Ho già chiesto ai registi se sia possibile entrare tra gli allievi della loro compagnia, una volta che terminerò il percorso in comunità e se resterò in Sardegna».

I due registi

Cada Die è una delle 16 compagnie teatrali italiane coinvolte nella settima edizione del progetto “Per aspera ad astra” (dal latino: attraverso le asperità, fino alle stelle) e attive in strutture carcerarie e comunità terapeutiche, con il sostegno di altrettante fondazioni bancarie, tra cui la Fondazione di Sardegna. Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu sono due dei fondatori di questa realtà nata nel 1982. L’iniziativa nazionale cui la compagnia ha aderito, consente di utilizzare il teatro come un autentico motore di cambiamento profondo. «È un’interessante esperienza di sperimentazione», sottolinea Piludu. «Un conto è lavorare con attori professionisti, un altro è affidarsi a persone che non hanno mai calcato le scene. Una bella scommessa, che ci dà sempre grandi soddisfazioni: il teatro ci permette di conoscere persone importanti e di valore, ma anche persone con grandi disagi, spesso emarginate, a volte detenuti dell’alta sicurezza con omicidi e rapine alle spalle. Noi non guardiamo a ciò che hanno commesso, piuttosto a quello che ci unisce, l’essenza di umanità senza pregiudizi, fuori dall’isolamento del carcere. Con alcuni ex allievi, è capitato di incontrarsi per strada e abbracciarsi come vecchi amici. Ci vogliono curiosità e disponibilità, anche pazienza, ma sempre consapevoli che occorre lavorare con serietà e concentrazione. Le regole ci sono e ci devono essere, anche per poter gestire certe tensioni che spesso esistono tra di loro».

Il regista e attore Pierpaolo Piludu

«Abbiamo lavorato con questo gruppo per circa otto mesi», interviene Mascia. «In un arco di tempo così breve, non potevamo pensare di sfornare attori finiti. Il senso del progetto è quello di creare un ponte culturale e artistico per approdare all’espressione artistica: non necessariamente il teatro, ma anche la musica, la scultura, la scenografia e così via. Insomma, tutto ciò che impone lavoro e un cambiamento di percorso: significa che la realtà è aperta, non è cieca e sorda. C’è anche una parte della società, al di fuori dei penitenziari e delle comunità, che li guarda come persone normali. Non solo per le loro qualità. Abbiamo puntato sulla forza del testo e sulla costruzione di un percorso insieme a noi, che li mettesse in gioco veramente. Ci siamo fatti aiutare in questo da Giovanni Malagutti, un esperto psicoterapeuta e criminologo: non era importante tanto la terapia, quanto il far capire ai sette protagonisti che recitare significa sapersi accordare con gli altri, scambiarsi, accogliere le debolezze altrui. È difficile per tutti, figurarsi per chi ha problemi di dipendenze dalla droga o poviene da esperienze di privazione della libertà».

Alessandro Mascia, attore e regista di Cada Die Teatro

«Abbiamo dovuto inevitabilmente tarare il lavoro con le persone che ci hanno messo a disposizione, noi non facciamo casting», precisa Piludu. «Sapevamo di dover accettare anche le loro pause a vuoto, le amnesie. Teniamo presente che il testo non era facilissimo e men che meno banale, tuttavia l’argomento era molto forte e vicino alle loro corde». «Non sono professionisti ma hanno una forza di comunicazione che noi a volte non abbiamo, o comunque dobbiamo lavorarci tanto», fa notare Mascia. «Hanno espresso al meglio ciò che hanno dentro, la loro interiorità che spesso è molto espressiva. La soddisfazione personale è vedere che qualcosa avviene, sempre, consapevoli che il carcere e la comunità sono ben diversi dal mondo esterno. Abbiamo terminato questo lavoro, con alcuni di loro magari non ci vedremo più, ma sono stati mesi straordinari che ci lasciano dentro qualcosa di potente».

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