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Zia Caterina: «Trasformo la mia rabbia per la malattia in empatia verso il prossimo»

Zia Caterina, la taxista stravagante e gioiosa dei bambini sofferenti, da qualche mese sta affrontando la sua malattia. In questa intervista ci racconta come riesce a trasformare la sua rabbia in empatia verso il prossimo, diffondendo gioia e amore

di Sabina Pignataro

Zia Caterina, ovvero Caterina Bellandi, è molto conosciuta perché dopo la morte del suo compagno Stefano, ha trasformato il suo taxi, Milano25, in un luogo magico, in una piccola oasi incantata che effettua corse gratuite per gli ospedali pediatrici di Firenze a favore dei familiari e dei bambini malati di tumore, quelli che lei chiama i suoi SuperEroi, trasformandoli in personaggi dei fumetti unici e inimitabili.

Pochi mesi fa Zia Caterina si è ammalata.

Oggi veste ancora in modo stravagante e bizzarro, con cappelli enormi, mantelli magici, una cascata di bracciali e collane, perché vuole portare il colore, la gioia, l’allegria e regalare un sorriso a tutti, ma soprattutto ai bambini che soffrono.

Ma qualcosa, dentro, è cambiato.

Zia Caterina, qualche settimana fa, sui social, il suo team ha scritto: “quando la incontrate chiedetele cosa fare insieme e non solo come si sente”. Ci arriviamo, ma prima: come sta?

Il mio percorso è lungo e impegnativo: sto facendo la riabilitazione all”Istituto di Riabilitazione Don Gnocchi” di Scandicci (Firenze). Sto bene, ma la cura immunosoppressiva e il cortisone hanno modificato la qualità della mia vita. Sono molto provata.

Ho la sensazione che il sorriso non sia stato intaccato. È una maschera, oppure è davvero serena?

Le persone che incontro ed il loro amore sono di conforto per accogliere questa difficoltà che sta diventando un valore aggiunto.

Quando mia figlia si è ammalata io mi arrabbiavo con chi mi diceva che la malattia arriva per insegnarci qualcosa. Non sono sicura che la malattia ci renda migliori, lei cosa ne pensa?

Sono certa che da questa tenebra sorgerà una luce che ci meraviglierà. Io penso che questa malattia sia un dono, perché mi fa essere  ancora più vicina a chi soffre.

Ma lei lo era già, aveva già confidenza con la fragilità. Sono molti anni che sul suo taxi salgono ragazzi e bambini che tutti i giorni sfidano mali crudeli e affrontano insopportabili dolori

Io e il dolore andiamo a braccetto da parecchio tempo. Ma non ha mai preso il sopravvento su di me, perché non sono sola. Di fronte alla malattia io offro aiuto, luccichio, risate, compagnia. Tutto quello che l’altro vuole. Anche il niente.

Ho letto che la sua è una malattia autoimmune. Corretto?

Sì, una malattia rara, autoimmune, le cui cause sono attualmente sconosciute che colpisce tra le 5 e le 7 persone ogni milione di abitanti. Mi hanno detto che stavo per morire.

Lei se ne è accorta?

Per fortuna no, è meglio così. Io comunque ho molta fede. Mi piace pensare ci sia un disegno più grande. E se invece non fosse così, mi sentirò ingannata, perché desidero tanto poter stare per sempre con Stefano, mio marito, e con la mia mamma.

Oggi ha paura di morire?

Sì, parecchia.

Come reagisce?

Cerco di andare a braccetto con questa paura, di farmela amica. Faccio in modo che sia un insegnamento. Che mi ricordi che oggi siamo qui ma domani forse no. E per questo non dobbiamo perdere tempo in scemenze.

Una fan del carpe diem?

Sì, se sai che non hai più tempo a disposizione, il tempo non lo butti.

Lei cosa fa?

Pianto semi, nelle persone. E pianto rose, nel giardino.

Rose?

Le pianto nella villa che era della mia mamma, e che da un anno a questa parte è diventata “La tana dei supereroi”. Un posto dove quelle persone che io chiamo “i disagiati e i disinvolti” possano venire a stare per un po’, semplicemente per stare bene. Insieme. Per essere felici, per giocare. Per rallentare. Perché anche se il tempo è poco è bene che non sia vissuto con l’affanno e la fretta.

Lei mi pare non si fermi mai: in questa oretta di chiacchierata ha fatto due selfie, offerto il caffè a tre operatori della don Gnocchi, finito la sua terapia, salutato quella mamma che non vedeva da un po’, camminato verso il reparto di pediatria con un vassoio di pasticcini in mano per i bambini…

Sembra tanto, e forse lo è. Ma io faccio una selezione: scelgo solo il bene.
Tre volte alla settimana vengo al don Gnocchi, faccio esercizi per un’oretta, e poi vado dai bimbi. Mi piacciono molto: tutti i bambini del mondo sono i miei figli perché sono i bambini che non ho mai avuto.

I bimbi sono stati per tanti anni la sua famiglia, la sua compagnia.

Questa volta però è diverso. Io non sono più (non solo) quella signora stramba che indossa cappelli colorati, abiti stravaganti e che guida un taxi colorato. Io qui sono anche la paziente.

Questa volta però è diverso. Io non sono più (non solo) quella signora stramba che indossa cappelli colorati, abiti stravaganti e che guida un taxi colorato. Io qui sono anche la paziente. Come loro.

Zia Caterina

Questo cambia la prospettiva.

Eccome! Io sono come loro. E loro lo avvertono. Si sentono più capiti, più accolti. È una bella sensazione. Non c’è giudizio. Spesso ci diciamo che quello che viviamo ci fa arrabbiare.

Lei è arrabbiata?

Certo che sì. Come potrei non esserlo? Sono arrabbiatissima. Ma uso questa rabbia per far germogliare nuove emozioni. Non la combatto.

Quali emozioni?

Trasformo la mia rabbia in empatia verso il prossimo. Da quando sono passata nel campo dei “guasti” ho capito che forse, se scavi a fondo,  una buona dose di fragilità, di sfighe e sofferenze ce l’abbiamo tutti. Capirlo aiuta a vivere meglio. Ci si sente meno soli. E più gentili con l’altro.

Trasformo la mia rabbia in empatia verso il prossimo. Da quando sono passata nel campo dei “guasti” ho capito che forse, se scavi a fondo,  una buona dose di fragilità, di sfighe e sofferenze ce l’abbiamo tutti. Capirlo aiuta a vivere meglio. Ci si sente meno soli.

Zia Caterina

Come è la sua vita oggi?

Penso di essere “non sana e non malata”. Entro ed esco da due dimensioni: fuori dall’ospedale sembra che io possa vivere una vita normale. Appena varco la porta del Don Gnocchi mi parcheggiano nel mondo delle malattie rare. Ma, secondo me non è il luogo dove stiamo che determina la nostra condizione.

E allora cos’è?

Se io mi sento innamorata, sono viva. Accolgo la vita così come è. Anche la malattia. Se non accetto la malattia, mi autodistruggo. E allora sono già morta.
Il confine lo traccia l’amore.

Cosa significa amare per lei?

Per amare devi esserci, nel bene e nel male, devi vivere il momento con straordinaria forza e fare ciò che devi fare. Devi vivere con tutto te stesso quello che ti viene richiesto di fare in quel momento. Non vivere niente a metà, ma tutto nella sua totalità

Per amare devi esserci, nel bene e nel male, devi vivere il momento con straordinaria forza e fare ciò che devi fare. Devi vivere con tutto te stesso quello che ti viene richiesto di fare in quel momento. Non vivere niente a metà, ma tutto nella sua totalità

Zia Caterina

Se si potesse (e non si può), rivorrebbe la sua vita di prima?

Manco per sogno. Mi spiego: questa cosa che si invecchia e si muore non mi piace affatto. Ma questa mia nuova vita mi garba assai. È il momento di essere felici con cognizione di causa.



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