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La mensa scolastica dovrebbe essere gratis: 4 mosse per arrivarci

La soluzione definitiva per il caso Lodi e non solo? Che la mensa scolastica sia gratuita per tutti i bambini. Non è una provocazione ma la logica conseguenza del fatto che il cibo non è una commodity ma un commons, un bene comune. Ne è convinto Alessandro Pirani

di Sara De Carli

La soluzione definitiva per il caso Lodi e non solo? Che la mensa scolastica sia gratuita per tutti i bambini. Una provocazione? Niente affatto. Piuttosto la logica conseguenza del fatto che il cibo non è una commodity ma un commons, un bene comune. Ne è convinto Alessandro Pirani, esperto di food policy, secondo cui il caso Lodi «mette in luce la totale assenza del riconoscimento del diritto all'alimentazione che persiste nel nostro Paese. In Italia, come quasi ovunque (tranne in Svezia), obblighiamo i bambini ad andare a scuola e poi chiediamo di pagare il pranzo. Ci sembra normale solo perché si è sempre fatto così: diamo per scontato che il cibo non sia un diritto a scuola, mentre diamo per scontato che lo sia in ospedale. Quindi il tema non ha a che fare solo con il diritto all'accoglienza delle popolazioni migranti, ma più in generale con il riconoscimento di diritti essenziali di cittadinanza».

Diverse in queste ore le riflessioni sulla vicenda dei bambini stranieri esclusi dalla mensa scolastica, che sono tornati a pranzare insieme ai compagni grazie allo straordinario successo della colletta avviata dal Coordinamento uguali doveri: una pezza che però – ne è consapevole in primis lo stesso coordinamento, che infatti non si ferma – non è una soluzione. Non lo è per Lodi né lo è in generale, dal momento che altre amministrazioni potrebbero o stanno già imitando la locale sindaca. ASGI ad esempio ha sottolineato come «quanto sta accadendo a Lodi e in altri Comuni riguarda la pretesa delle amministrazioni di erogare le prestazioni sociali richiedendo agli stranieri documentazione aggiuntiva in contrasto con la procedura ISEE fissata da norma nazionale. È un problema di uguaglianza sostanziale non solo tra cittadini e stranieri, ma anche tra cittadini italiani giacché se ciascun Comune potesse stabilire secondo propri criteri “chi è ricco e chi è povero” verrebbe meno la scelta del legislatore, operata nel 2013, di stabilire criteri uniformi su tutto il territorio nazionale, per quanto riguarda l’accesso alle prestazioni sociali. L’ISEE non è una autocertificazione, ma una attestazione pubblica del livello di reddito e di patrimonio ed è appunto il criterio prescelto dal legislatore e ad esso le amministrazioni sono tenute a fare riferimento».

Ma torniamo alla mensa. Nel suo “Appunti per una food policy nazionale” (lo trovate su Academia.edu) Pirani all’interno di un ragionamento più complesso sulla necessità di «superare la visione del cibo come mera commodity» per considerarlo come «un bene comune (commons) al pari dell’acqua, dell’aria, della connettività, dedica molto spazio proprio alle mense scolastiche. Per lui «da servizi a domanda individuale soggetti a tariffe, i pasti della refezione scolastica – nella scuola dell’obbligo e pubblica, ndr – vanno ricompresi nella sfera dei servizi essenziali, equiparati quindi ai trattamenti ‘alberghieri’ erogati all’interno delle strutture ospedaliere». D’altronde nel tempo pieno la mensa è tempo scuola a tutti gli effetti. Il fatto che oggi i pasti siano a pagamento pena l’esclusione dal servizio nonostante sia di fatto obbligatorio frequentare la mensa è il caso «più eclatante» di come «il diritto all’alimentazione di qualità sia negato in modo clamoroso anche nelle società presuntamente più avanzate». Siamo in “buona” compagnia, è vero, dal momento che i Paesi che hanno politiche per la gratuità del pasto scolastico si contano sulle dita di una mano, con Svezia e Finlandia «che rappresentano la punta più avanzata, penso all’esemplare SkolmatSverige svedese».

In Italia obblighiamo i bambini ad andare a scuola e poi chiediamo di pagare il pranzo. Ci sembra normale solo perché si è sempre fatto così: diamo per scontato che il cibo non sia un diritto a scuola, mentre diamo per scontato che lo sia in ospedale. Quindi il tema non ha a che fare solo con il diritto all'accoglienza delle popolazioni migranti, ma più in generale con il riconoscimento di diritti essenziali di cittadinanza

Alessandro Pirani

Ovviamente la gratuità del pasto scolastico è onerosa dal punto di vista economico. Ma non insostenibile. Come? Pirani fa quattro proposte. Innanzitutto abbassando drasticamente la quota-carne in favore di alternative proteiche non animali «si stima un abbattimento del costo-pasto del 70%, di per se sufficiente per ipotizzare nuovi criteri universalistici per il servizio», afferma Pirani. Seconda ipotesi, lavorare sul fronte sprechi, con convenzioni tra i soggetti gestori dei servizi di refezione e la GDO per l’utilizzo di derrate e prodotti in scadenza, che determinerebbe una decisa riduzione del costo. Tre, l’attivazione di filiere locali, con la creazione di un indotto capace di trattenere il valore sul territorio in modo virtuoso. Quattro, un food bonus analogo all’art bonus che dia sgravi fiscali sugli acquisti di derrate sostenibili.

«Un food system pubblico come questo vedrebbe nell’impresa sociale il principale attore. L’affidamento dei servizi di refezione scolastica a soggetti sociali dovrebbe avvenire mediante l’introduzione di ‘clausole sociali’ inserite come premialità per l’aggiudicazione delle gare: ciò favorirebbe da un lato la crescita di questi soggetti economici, nonché la ristrutturazione sociale complessiva dei sistemi alimentari locali e dei loro attori tradizionali», aggiunge Pirani. «La potenza di fuoco delle imprese sociali di rado basta a far fronte agli appalti scolastici: diventerebbe necessario favorire l’interazione tra big player della ristorazione collettiva e realtà medio piccole dell’agricoltura sociale, dove mettere a fattor comune la capacità produttiva tecnica e la capacità di valorizzare persone a ridotta produttività», conclude.

Già nei mesi scorsi Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the Children, presentando l’annuale Atlante dell’Infanzia a rischio, guardava con forte attesa al compito che l’ultima legge di stabilità aveva assegnato all’Istat (a proposito, a che punto siamo?): definire i parametri per individuare le aree a più alta povertà educativa per indirizzare lì gli interventi prioritari (e le risorse). Come esempio di intervento prioritario citava proprio «la mensa gratuita per far restare tutti a scuola col tempo pieno. L’obiettivo è ribaltare una zona deprivata e farla diventare un fiore all’occhiello, un luogo educativamente denso, in grado di disegnare un’alternativa di futuro, altrimenti gli adolescenti qui hanno solo la prospettiva dell’inserimento nel circuito della criminalità». Il report (Non) tutti a mensa di Save the Children d’altronde ha evidenziato un nesso fra dispersione scolastica, presenza della mensa e del tempo pieno a scuola: al crescere dell’offerta formativa (mensa e tempo pieno) decresce visibilmente la percentuale di dispersione scolastica.

Foto © FABIO MAZZARELLA/AG. SINTESI


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