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Claudio Radaelli

L’Europa alla prova del populismo

di Redazione

Trattare il populismo, anche solo quello di destra, come un fenomeno coerente e mono-dimensionale significa non poterlo affrontare nel modo adeguato. Di nuovo c'è il fatto che i partiti populisti riescono a farsi vivi su temi che in precedenza non erano loro territorio

È l’Unione Europea, con la sua struttura elefantiaca, tecnocratica e burocratica, ad essere il bersaglio privilegiato della maggior parte dei movimenti e partiti populisti.

Per ampliare il dibattito, al fine di offrire una maggiore completezza all’indagine sul populismo sin qui condotta, ci siamo rivolti al professor Radelli, tra i maggiori esperti di questioni di politiche pubbliche, europeizzazione, apprendimento e analisi di impatto della regolazione. Claudio Radaelli è attualmente Professore di scienze politiche presso l’ Università di Exeter dove dirige il Centre for European Governance. Ha insegnato all’ Università di Bradford per otto anni, ed in altre Università europee come Bordeaux, EUI-Firenze, e Agder a Kristiansand.

Cos’è il populismo e quali sono le cause scatenanti da cui origina l’ondata che sta attraversando Europa e Stati Uniti?
Il populismo non è un fenomeno nuovo, e, lo diciamo subito, è un fenomeno multi-dimensionale. Anche a livello partitico: ci sono almeno tre-quattro decadi di storia politica di partiti populisti che in vario modo hanno cercato di infilarsi in mezzo alle classiche linee di divisione come destra-sinistra in tutta Europa, dalla Scandinavia fino a noi. In Europa troviamo partiti populisti che hanno posizioni molto diverse sulle politiche sociali, sull’economia e sulla democrazia rappresentativa e liberale. Trattare il populismo, anche solo quello di destra, come un fenomeno coerente e mono-dimensionale significa non poterlo affrontare nel modo adeguato.

Basta osservare i partiti populisti di destra greci, svizzeri e olandesi, per non parlare delle varianti che vediamo nell’Est Europeo. Di nuovo mi pare ci sia che i partiti populisti riescono a farsi vivi su temi che in precedenza non erano loro territorio, penso a come si stanno muovendo con relativo successo di consenso sulle questioni di politica macroeconomica e di commercio estero da circa una quindicina d’anni. Poi sappiamo che il successo maggiore dei populisti non riguarda il numero di ministri conquistati ma la loro influenza sui partiti moderati, che, tirati per la giacchetta, si spostano su posizioni pericolosamente vicine a quelle dei populisti. La deriva del partito conservatore dopo il referendum Brexit fa pensare che una buona fetta di eletti di questo partito abbia reso ridondante avere UKIP – UK Independence Party.

Infine ci sono elettori populisti rappresentati da partiti, quindi elettori che hanno una loro identificazione partitica, ed elettori che non hanno alcuna identificazione partitica, non ascoltano i leaders e sono euroscettici. Questi ultimi passano spesso e volentieri all’apatia politica, ma ovviamente quando possono votare in referendum chiave come Brexit si fanno sentire. Mi chiedete quali sono le cause? Appunto, un conto è la domanda, l’opinione pubblica, un conto l’offerta. Per una volta non parliamo di economia e sicurezza economica, parliamo di offerta di democrazia, delle istituzioni. In paesi dove la cultura politica liberale e la comprensione di come funziona il mercato e l’innovazione sono minoritari abbiamo pochi anticorpi. A me pare che la risposta giusta sia democratizzare le nostre democrazie malate e le loro istituzioni, che soffrono di diversi deficit: di rappresentanza, di diritto alla conoscenza (ultima grande battaglia di Marco Pannella, che ci ha lasciato un terreno immenso ma fecondo da coltivare), di accountability.

Sul fronte dell’offerta il fatto che i leaders europei abbiano per tanti anni rinunciato cinicamente ad articolare esplicitamente le ragioni per cui i loro Paesi hanno vantaggiosamente fatto parte fino ad ora di organizzazioni come la World Trade Organization e l’Unione Europea ha significato abdicare alla funzione pedagogica della politica. La politica democratica di oggi è anche spiegare, è anche leadership dei primi ministri sulle questioni centrali del paese. Un po’ come sui vaccini: a un certo punto ci vuole un ministro che vada a spiegare in TV e si assuma la responsabilità di dire “Questo è scienza, questo no: noi siamo per la libertà della scienza, non per le superstizioni”.

Bisogna martellare allo stesso modo sui fatti duri dell’immigrazione, di come funziona davvero l’Unione Europea, sullo stato delle carceri italiane e della giustizia penale, sul business della droga, e sui benefici collettivi di mercati aperti e concorrenziali. Senza cadere nella trappola di dare sempre la colpa all’Unione Europea e al liberalismo: questo giochino funziona nel breve periodo, poi genera i mostri di cui parlavamo prima.

Il quadro geopolitico è in continuo mutamento e nuovi attori come Russia, Cina e India sono emersi alla ribalta. Come potrebbe l’Europa,- che si presenta ad oggi con una propria politica estera debole e priva di una difesa comune,- affrontare le nuove sfide che le si pongono innanzi?
L’Unione Europea ha una grande potenzialità: quella di non avere tante politiche estere quanti sono gli stati membri, ma di averne una sola, coerente quanto basta per definire il nostro interesse e proteggerlo. Anche per la sicurezza militare dobbiamo pensare a un progetto federale leggero: ha senso avere una fanteria italiana, lituana, bulgara, e via dicendo? Se guardiamo poi a una visione di difesa e sicurezza che va oltre quello che si dovrebbe fare domani mattina, l’Unione Europea non ha e non potrà mai ambire a diventare una potenza militare simile agli Stati Uniti o alla Russia. La strada è quella di coltivare la nonviolenza, anche come difesa civile non violenta, e di presentarsi al mondo e ai cittadini europei come potenza civile nonviolenta. Esiste tutta una storia europea di comunità che nei decenni si sono difese e spesso hanno tenuto vivi gli ideali europei con la nonviolenza, solo che non viene coltivata neppure dal Parlamento Europeo. Anche gli episodi degli ultimi 30 anni, dalla Serbia all’Ucraina, ci danno lezioni importanti sulle potenzialità della nonviolenza. Sarebbe anche un modo di ricordarsi che con il trattato di Maastricht abbiamo creato la cittadinanza europea, e di iniziare a darle qualche contenuto, no? Questo argomento meriterebbe un approfondimento che non posso fare ora, lo rimandiamo ad un altro momento.

Tra le molteplici cause che generano malcontento verso le istituzioni europee c’è un iper-regolazione ed “intrusività” normativa che alimenta nei cittadini comuni una forte sensazione di distanza dalla realtà istituzionale europea. Che cosa si può fare per ridurre la proliferazione normativa, migliorarne l’impatto ed avvicinare maggiormente i cittadini alla vita istituzionale europea?
Certamente abbiamo molta strada da fare per ridurre oneri amministrativi che irritano e costano a imprese e cittadini, e per migliorare il beneficio netto della legislazione europea. Eppure potete constatare anche voi una cosa ridicola di questo malcontento per la proliferazione normativa dell’Unione Europea: i ministri che si lamentano sono poi quelli che in sede di Consiglio oggi peggiorano le proposte regolamentari della Commissione Europea, poi domani introducono oneri amministrativi in sede di trasferimento delle regole europee nel quadro regolativo nazionale, e per finire mandano nelle imprese ispettori con una cultura aggressiva e fiscale. Fra l’altro anche questo atteggiamento di dare la colpa alla Commissione fa il gioco dei partiti populisti di cui parlavamo prima. Di sicuro in tema di iper-regolazione paesi come Italia, Francia e Germania non possono dare lezioni ai burocrati di Bruxelles. Gli strumenti per migliore sul fronte delle regole ci sono: la questione è la qualità delle regole europee, non tanto il loro numero. Le regole buone ci proteggono dai grandi rischi e sostengono processi di innovazione, quelle cattive rendono difficile assumere, fare business e possono anche aumentare la corruzione. Ecco allora le soluzioni: valutare le regole prima di proporne di nuove, fare analisi empiriche dei probabili effetti positivi e negativi delle proposte regolative, consultare sulle nuove regole europee, pensare al nesso regole-innovazione è molto più efficace che avere dei tetti di de-regolazione all’ingrosso, come il business impact target inglese, che nulla ci dicono sulla qualità.

È​ sempre più diffusa l’idea che è sufficiente “rettitudine morale” per guidare i processi politico- amministrativi, e quindi, governare bene. Però governare, in un mondo globalizzato, implica avere competenze complesse da cui non si può prescindere se si vogliono realizzare politiche pubbliche efficienti ed efficaci. Come può la valutazione delle politiche pubbliche aiutare a migliorare i processi decisionali e la qualità della politica?
Un problema di fondo mi pare sia sempre quello del valutare per chi? Per valutare devi avere un pubblico di riferimento: il manager pubblico, le persone che sono toccate da quello che stai valutando, la Commissione Europea che ha garantito il finanziamento. E poi vedo un problema di visione troppo micro e di ruolo dei professionisti. Il problema di chi fa analisi delle politiche pubbliche e valutazione in genere è quello di pensare sempre al livello della singola politica pubblica di cui ci si sta occupando, o del settore, tipo gas, acqua, casa, pensioni. Oggi persone come me, analisti delle politiche pubbliche, devono ampliare la loro visione periferica e tornare all’idea di Harold Lasswell per cui lo scopo ultimo delle scienze delle politiche (the policy sciences) è proteggere la dignità umana e l’eguaglianza politica. Pensiamo alle questioni della tecnocrazia: l’analisi delle politiche pubbliche studia da sempre le questioni di utilizzazione del sapere e il rapporto fra conoscenza, scienza e decisione politica. Insomma per la nostra gente che fa valutazione e analisi delle politiche pubbliche mi sembra sia giunto il momento di pensare in modo macro, ai grandi problemi che di solito lasciamo ai politologi comparatisti – istituzionalisti e ai giuristi. Dico questo con convinzione, dato che il grado di applicabilità ai problemi delle nostre società dell’analisi delle politiche pubbliche è senza dubbio maggiore di quello dell’ingegneria costituzionale comparata. Infine la parte in qualche modo pedagogica: per anni abbiamo cercato di insegnare la scienza naturale e la scienza sociale ai politici. I quali comunque alla fine fanno il loro mestiere di politici, cercano il consenso piuttosto che la verità scientifica. Ora bisogna iniziare ad insegnare come si formano le decisioni agli scienziati che siedono nei comitati consultivi, partecipano a indagini conoscitive in parlamento, informano decisioni con studi, opinioni, pareri ufficialmente richiesti. Questi biologi, medici, esperti di clima e ambiente, tossicologi devono capire che gioco stanno giocando i manager pubblici e, se del caso, i parlamentari e politici eletti con cui si confrontano. Se pensi di essere in classe quando invece sei in un processo di negoziazione oppure in un processo dominato dalla gerarchia delle norme e delle procedure, allora il tuo ruolo diventa insignificante, addirittura inutile rispetto agli obiettivi che tu come scienziato ti eri prefissato.

Maggiore partecipazione politica è l’elemento che molte forze politiche indicano come essenziale al miglioramento della qualità della governance a livello sovranazionale, nazionale e locale. I processi economici e la globalizzazione impongono però ritmi decisionali e una tecnicalità che mal si conciliano con la “democrazia deliberativa”. Come si possono mettere d’accordo le istanze della partecipazione con quelle dell’efficienza?
Vedo questi interrogativi da una prospettiva particolare, quella dell’apprendimento (policy learning): come facciamo ad apprendere usando le risorse di partecipazione e di expertise che abbiamo in una data società o sistema politico? Apprendimento non vuol dire solo migliorare una dato assetto di policy (e comunque, ben venga il miglioramento incrementale) ma anche pensare a come/per quali ragioni/in che modo le nostre società abbiano bloccato le arterie dell’apprendimento. Si apprende socialmente in quattro modi: (a) tramite la negoziazione fra interessi diversi, (b) ascoltando la scienza e gli esperti, (c) con la partecipazione e la diffusione di innovazione sociale dal luogo dove viene creata al sistema, e (d) attraverso le norme, le regole e lo stato di diritto.

Ognuno dei quattro modi ha dei meccanismi di innesco particolari, dei fattori di blocco, delle patologie. Ogni modo serve ad apprendere certe cose ma non altre. Abbiamo fatto tanti studi in merito, anche sulle condizioni nelle quali l’expertise sorregge l’apprendimento e le condizioni laddove si trasforma in tecnocrazia. Per la partecipazione come fonte di apprendimento sociale ci sono due grandi limiti: quello del dominio di chi ha tempo, voglia e risorse cognitive per partecipare, e quello di come connettere il momento partecipativo al momento della scelta in sede istituzionale. Non esiste panacea, un sistema politico aperto e liberale deve saper far funzionare i quattro modi di apprendimento in modo complementare, con regole di availability precise. I sistemi autoritari privilegiano il modo gerarchico, la tecnocrazia si illude che la politica sia un algoritmo, la partecipazione dei descamisados l’abbiamo vista all’opera in America Latina tante volte, e ora anche in Europa. Finisce con il leader carismatico oppure con la democrazia assembleare.


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