Cooperazione

Giuseppe Bruno: “Cari giovani, ecco perché l’impresa sociale fa per voi”

di Redazione

Dialogo a tutto campo con il presidente di Cgm, il maggiore gruppo di cooperative e imprese sociali italiane che riunisce circa 800 Imprese sociali, 58 consorzi territoriali con 50mila persone occupate, alla vigilia della convention nazionale di Matera

Produrre connessioni, contribuire allo sviluppo economico e sociale del Paese non solo al rinnovamento del sistema di welfare: è questo uno degli obiettivi principali di “Sharing Future”, la XIV edizione della Convention CGM. Il maggiore gruppo di cooperative e imprese sociali italiane che riunisce circa 800 Imprese sociali, 58 consorzi territoriali con circa 50mila persone occupate. Matera, capitale della cultura europea 2019, è il luogo prescelto per la convention che si terrà dal dal 29 al 31 ottobre. Padrone di casa sarà Giuseppe Bruno, nella duplice veste di presidente del Consorzio Gino Mattarelli (a giugno ha raccolto il testimone da Stefano Granata) e di numero uno del Consorzio lucano La Città Essenziale, a cui Vita sul magazine di ottobre ha dedicato una puntata del suo viaggio fra i distretti sociali italiani più innovativi.

Bruno in questi mesi è stato impegnato in un giro d’Italia in cui ha incontrato gli aderenti al circuito Cgm, per raccogliere sollecitazioni dai territori e costruire il futuro piano di sviluppo triennale, del quale presenterà alcune anticipazioni proprio in occasione della Convention.

Presidente, quali urgenze emergono dai territori?
In questa nuova fase vi è la necessità di potersi dotare di modelli più elastici da contestualizzare nelle singole realtà, non più con standard unici per tutti, ma tenendo conto dei peculiari modelli di sviluppo dei luoghi che abbiamo incontrato e delle potenzialità presenti. In altre parole lo sviluppo delle attività di impresa sociale deve attagliarsi al contesto di riferimento. Il tema della coesione sociale mantiene la sua centralità, ma l’alleanza imprenditoriale va costruita insieme ai soggetti che animano i mercati pubblici e privati, canalizzando le energie e le relazioni sedimentate, sostanzialmente essere protagonisti in questa nuova fase storica. E’ quella che Zamagni chiama “capacità trasformativa del Terzo Settore, ovvero la metafora del castoro”. Come dire: portiamo la nostra esperienza per cambiare il paradigma più che cercare di adattarci all’esistente.

Un “ritorno di fiamma” rispetto ai mercati pubblici?
Abbiamo due risvolti che occorre tenere in conto. Da un lato, consolidare i rapporti con il mercato privato, che è già un vettore evolutivo e di diversificazione per le nostre imprese sociali; dall’altro, occorre continuare a dialogare con gli enti pubblici per orientarne la spesa in maniera coerente con i bisogni emergenti e le potenzialità territoriali, partendo dal presupposto che la distribuzione delle risorse pubbliche risente oggi anche di una disomogeneità normativa tra le diverse regioni, come succede ad esempio per l’accreditamento dei servizi. Non sempre occorre inventare cose nuove, le abbiamo già, servizi che rispondono con qualità e aderenza alle necessità delle persone, che innovano e progrediscono in modo da valorizzare tanto le aree metropolitane quanto le aree in via di spopolamento. Abbiamo imprese sociali cooperative che non solo forniscono un servizio all’altezza delle richieste, ma ridistribuiscono “valore aggiunto intangibile”, ricchezza necessaria oggi per rendere coese le nostre comunità. Occorre quindi facilitare una “tridimensionalità relazionale”, fra il pubblico il privato e la comunità, humus ideale per sviluppare processi evolutivi per una concreta economia civile.

Quali sono gli ambiti a cui guardate con maggiore interesse?
Ve ne sono diversi, dall’ambito educativo e dei servizi 0/6 sostenibili per tutti, all’ambito della silver economy, dove le persone senior mantengono un patrimonio attivo sottostimato, ma che necessita comunque di servizi adeguati e spazi di accoglienza diversificati, in una logica di trasversalità in filiera che comprende non solo servizi di integrazione sociosanitari ma anche attività di tipo culturale e ricreativo. Sono cambiate le esigenze perché sono cambiate le generazioni e non è consentito non leggere queste dinamiche. Il welfare oggi non può più essere interpretato solo in modalità verticale, va inteso come realizzazione dell'accezione più estesa di benessere, con tutte le connessioni possibili, sostenendo con un approccio sistemico a “grappolo” la comunità o le comunità nelle quali e per le quali si opera. Vi è poi l’ambito dell’Innovazione applicata al welfare, che consente di far progredire e ammodernare gli stessi servizi e rendere attrattiva l’impresa sociale alle giovani generazioni.

Perché un giovane con aspirazioni imprenditoriali dovrebbe preferire un’impresa sociale a una start-up?
I dati dicono che su dieci start up, ne sopravvivono solo un paio. E questo genera stress e demotivazione, legati ad una difficile gestione del fallimento che spesso induce a ripiegare su altri settori, cambiando strada e dismettendo la vocazione imprenditiva. Quando un giovane invece sceglie il mondo dell’impresa/cooperativa sociale entra in un percorso partecipato e sistemico, e per questo più tutelante e in grado di attutire i fattori di rischio connaturati con l’attività d’impresa. Mi pare una prospettiva completamente diversa, oltre che interessante. Al contempo, per essere attrattivi bisogna essere assertivi, comunicare con determinazione alle nuove generazioni di imprenditori la portata di quel che facciamo: oggi, anche grazie alla riforma del Terzo Settore, il portato valoriale della cooperazione sociale tradizionale è stato riconosciuto anche nel suo impatto produttivo ed economico, e quindi di impresa. E’ il tema dell’accountability, e molto c’è da fare ancora. L’impresa sociale cooperativa ha in sé alcuni anticorpi naturali, la condivisione dell’idea, del sacrificio, della passione e anche la capacità di mitigare eventuali fallimenti, perché si condivide e si riparte. Parliamo di cooperative sociali autentiche e non di quelle nate strumentalmente.

Cosa risponde però a chi sostiene che i lavoratori delle coop sociali impegnati nel socio-assistenziale in fondo in fondo sono infermieri di serie b?
Il lavoro da compiere – ed è una priorità per Cgm – è accompagnare in continuità il processo di trasformazione in atto per far assumere maggiore consapevolezza alle nostre imprese sociali del valore di quello che facciamo da tutti i punti di vista, e di cui il nostro Paese non può fare a meno. Quel lavoro che oggi deve influenzare i decisori politici verso un congruo investimento di risorse economiche per il welfare. Se poi paragoniamo i dati occupazionali del settore in raffronto ad altri mercati emerge l’alto valore aggiunto che contraddistingue la cooperazione sociale, e i suoi risvolti in termini di sviluppo e benessere. Vuole quindi dirmi che chi produce occupazione e sviluppo rispondendo a bisogni sociali è di serie b? allora sono orgoglioso d’esserlo.


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