Luigino Bruni

Il profitto e l’anima alle radici della società civile

di Marco Dotti

La ricchezza privata e il profitto possono trasformarsi in ricchezza e buona economia. Ma, spiega l'economista, dobbiamo abbandonare alcuni pregiudizi. In un mondo spiritualmente e simbolicamente sempre più impoverito, «l'economia deve tornare a coniugarsi con lo spirito»

Il termine economia, oikonomia, appare una volta sola nei Vangeli. Appare, ricorda Luigino Bruni, a riprova che l'etica economica del Nuovo Testamento non è semplice, in una parabola articolata e complessa, presente nel Vangelo di Luca: la parabola dell’amministratore disonesto.

Attorno a questa parabola, ci spiega Bruni (di cui anche il numero di gennaio di Vita pubblica un contributo) si sviluppano i fili che, nella nostra storia economica, hanno creato una serie di pregiudizi. Su tutti, quello nei confronti del lavoro ben fatto e del guadagno.

La diffidenza etica verso il guadagno

C'è un nodo cruciale nell'etica economica occidentale. Un nodo che si incarna nella figura di Giuda e, nel corso di complicate vicende storiche e politiche che lei sta indagando da molti anni oramai, confonde profitto e turpe lucro, sovrapponendo le opere e la grazia…
Questa figura incarna un tema che ruota attorno al denaro. Vediamo la questione da vicino: si ritiene che il denaro speso per il culto, per la magnificenza, per le Chiese… denaro che nei secoli diventerà anche denaro speso per il pubblico e per le opere buone va bene. Mentre il denaro guadagnato col lavoro, per vivere, viene svalutato e visto con sospetto.

Una dicotomia che viene da lontano e arriva fino ai nostri giorni…
Arriva fino ai nostri giorni e si riverbera in una diffidenza etica che colpisce i commercianti, i negozianti, i mercanti e tutti coloro che lavorano per vivere. Ci siamo portati dietro per secoli questa diffidenza e, ancora oggi, ne sentiamo il peso. Pensiamo ai fondi di investimento o al grande capitale, che sono visti con accondiscendenza se lasciano cadere un po' di briciole sotto il tavolo, facendo filantropia. Invece, ai piccoli non perdoniamo il fatto che intraprendono per vivere. Partiamo dal pregiudizio che chi intraprende, commercia, lavora per vivere sia inevitabilmente colpevole di "turpe lucro". Invece…

Recentemente, in Italia è stata introdotta una lotteria degli scontrini. A parte il meccanismo perverso di gamblification, colpiscono le motivazioni di etica economica addotte dal governo: "serve per evitare il guadagno in nero"…
Questo è il segnale evidente del pregiudizio etico di cui stiamo parlando: guardiamo con sospetto il panettiere, il barista, il salumiere. Invece verso i private equity e quelli stanno nei paradisi fiscali si salvano dalla diffidenza etica generale. Non che non ci siano evasori anche tra i commercianti, ma è l'atteggiamento generale e istituzionale a colpirci.

Un atteggiamento molto "cattolico"…
Un atteggiamento che identifica il nemico nel bene comune il concittadino. Nasce da qui una rivalità posizionale, che in un momento come questo di grande difficoltà generarle ci spinge ad accusarci a vicenda, facendoci scordare i grandi flussi e i grandi capitali finanziari che circolano tranquillamente. Guardiamo con sospetto lavoratori e commercianti e non guardiamo affatto le grandi derive finanziarie che depauperano l'economia e il Paese.

Oggi la sfida non è solo quella del capitale sociale, ma anche quella del capitale spirituale. C'è bisogno di rimettere insieme le tecniche con l'anima

Luigino Bruni

Riferendosi a una sua recente analisi, incentrata oltre che sulla figura di Giuda su quella della Maddalena, possiamo dire che esiste un momento in cui profitto e ricchezza privata possono diventare civili? Accade proprio quando si abbandona la prospettiva di Giuda e si sceglie quella della Maddalena? Ci aiuta a entrare in questa complessa tessitura di antropologia economica?
Il concetto centrale di questo discorso è: non abbiamo sviluppato un’etica economica in cui il positivo del mercato è il mutuo vantaggio del lavoro “normale”. Eppure, in un’ottica di economia civile, la bellezza del mercato è tutta qui: mentre la gente fa il proprio lavoro, normalmente fa il bene comune.

Che cosa significa questo avverbio, “normalmente”?
Significa che ci siamo dovuti inventare o il modello filantropico o il modello della mano invisibile. Ma questi modelli producono delle incomprensioni di fondo. Il modello filantropico, ad esempio, induce a pensare che nell’attività ordinaria non si persegua il bene comune: si deve fare qualcosa di più.

Il bene comune è il lavoro ben fatto

Nella nostra storia economica non siamo riusciti a considerare come bene in sé il normale lavorare, il normale produrre delle cose, la mutua assistenza e il farsi servizi vicendevolmente in quel network cooperativo che è il mercato, dove ognuno serve l’altro e servendo l’altro vive. Abbiamo dunque trovato una modalità filantropica – la donazione parallela al mercato: prima o dopo il momento economico – o la mano invisibile, che ritiene che le azioni abbiano degli effetti non intenzionali e che il bene comune non sia intenzionalmente legato alla cooperazione del lavorare. Secondo lo schema della mano invisibile il bene comune sarebbe qualcosa che accade, ma per effetto del meccanismo economico intrinseco all’agire privato.

Se hai un forno per fare il pane, e fai il pane per la gente e quella gente viene, ti paga, acquista il tuo pane… e ciò che accade dentro quel forno è il bene comune. Questo non l’abbiamo mai accettato. Abbiamo pensato che dovessimo fare qualcosa in più intenzionalmente, con la filantropia, o non intenzionalmente con la mano invisibile. Non abbiamo accettato che la cooperazione economica ordinaria sia civiltà.

Dobbiamo riavvolgere il filo delle nostre idee economiche. Che cosa comporta riavvolgere questo filo?
Comporta il fatto di capire che c'è anche una via italiana al mercato, molto diversa dalla via statunitense o anglosassone, all''economia. È una via molto più intrecciata ad altre dimensioni della vita, come la religione, l'esperienza dei monasteri, l'etica economica cristiana. Se vogliamo capire, ad esempio, perché in Italia abbiamo tante piccole imprese e i distretti, riavvolgendo il filo bisogna conoscere i Monti di Pietà, che erano centinaia in Italia.

I giovani, in un mondo molto impoverito sul piano simbolico e spirituale, sentono che c’è bisogno di ricostituire un patrimonio ideale, anche religioso in un senso moderno

Luigino Bruni

Bisogna tornare indietro nei secoli. Da una parte, per una comprensione migliore del nostro capitalismo dobbiamo comprendere la storia. A noi, come italiani, manca un mito fondativo del capitalismo e pertanto dobbiamo ricominciare il percorso a ritroso: guardando alla nostra storia.

Questa storia è inevitabilmente intessuta di religiosità…
Il nostro civile si è espresso molto con gli ordini religiosi e siccome gli ordini religiosi significavano "Chiesa", una certa visione laica li ha esclusi dalla sua riflessione derubricandoli come "faccenda clericale". Ma così facendo non capiamo la nostra società civile. Non ne capiamo le radici. Per questo dobbiamo andare a ritrovare alcuni luoghi importanti e alcune figure, dalla Scuola francescana all'economia di Antonio Genovesi, dove possiamo raccontare storie belle del nostro passato.

Fare economia, fare anima

Questo è un aspetto dello sguardo storico: andando indietro, si può guardare meglio il presente. Ma non c'è solo questo…
Ci sono domande importanti, su finanza e impresa, che sono importanti per fare finanza e impresa oggi: l'esperienza dei Monti di Pietà, ad esempio, è una lezione attualissima.

Storia e futuro. Recentemente, ad Assisi, con Economy of Francesco si è tornati su questi temi, coinvolgendo e convocando i giovani.
The Economy of Francesco è stato tante cose assieme. Una delle cose fondamentali, però, è stato coinvolgere i giovani economisti nei luoghi francescani. Questo ha rivelato e al tempo stesso confermato che c’è una grande esigenza di spiritualità nei giovani economisti. Chi fa economia, per anni, è stato abituato a doversi confrontare con specializzazioni e tecniche. Non ci sono solo queste, c’è anche l’anima. I giovani, in un mondo molto impoverito sul piano simbolico e spirituale, sentono che c’è bisogno di ricostituire un patrimonio ideale, anche religioso in un senso moderno.

Oggi la sfida non è solo quella del capitale sociale, ma anche quella del capitale spirituale. C'è bisogno di rimettere insieme le tecniche con l'anima. Il Papa, d'altronde, nella sua lettera ha ribadito: «Vi chiamo ad Assisi per rianimare l'economia».

Quale significato possiamo dare a questo verbo, «rianimare»?
Nel verbo «rianimare» c'è una dimensione di profondità e di capitale spirituale. «Rianimare» significa capire il perché delle cose, non solo il come. Dobbiamo salvare questo bisogno di profondità dei giovani, questa sete di idealità, di utopia. Non possiamo dimenticare questa sete.

Proprio in occasione di The Economy of Francesco, il Papa ha espresso idee forti su filantropia e società civile…
Il Papa, nella sua critica, ha in mente la filantropia legata al modello nordamenricano. Una filantropia completamente funzionale e legata al capitalismo cosiddetto compassionevole. Un modello che tocca il 2%: doniamo questa percentuale per le opere e il resto non viene toccato. La sfida lanciata dal Papa è la sfida del 100%, non del 2%.

La sfida di un'economia davvero civile. Non significa che la filantropia non abbia un suo spazio. Ma non è quella della parte, del 2%. È quella del tutto. Solo rovesciando la prospettiva genereremo un futuro pieno di nuova speranza.


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