Umberto Di Maggio

Le mani visibili della cooperazione

di Redazione

Il cooperativismo, letto in chiave sociologica, offre molti spunti di riflessione sull'oggi. In particolare, emerge l'importanza di questa forma d’impresa per lo sviluppo economico e sociale in una prospettiva d’analisi del mercato scevra dai dogmi dell’autoequilibrio e della provvidenziale “mano invisibile”

Quali sono i processi di sviluppo di questa specifica organizzazione che si è diffusa a partire dalle mutate condizioni economiche e sociali avvenute con le rivoluzioni industriali? Le risposte a questi interrogativi sono da rintracciare nell’analisi del cooperativismo in quanto fenomeno sociologicamente rilevante.

Ne parliamo con Umberto Di Maggio, sociologo, docente di sociologia generale e di sociologia economica all’Università Lumsa di Palermo, autore del recente Le mani visibili della cooperazione edito da Mimesis.

Il suo volume Le mani visibili ha un obiettivo molto complesso. Vuole delineare una "sociologia del cooperativismo" che sia in grado di fornire, grazie a strumenti quantitativi e qualitativi di analisi, una comprensione di un fenomeno che rappresenta "un pilastro" della società italiana. Perché non basta – o forse, non abbastanza – solamente fare la "storia della cooperazione"?
Il cooperativismo è un grande movimento che ha avuto assoluto protagonismo nei processi sociali, economici e politici già a fine ‘800 in tutta Europa e non solo.

La sfida interpretativa per un sociologo interessato a questi fenomeni è però comprendere se oltre alla diffusione di specifiche ideologie e di particolari condizioni storiche – di ordine politico ed economico ad esempio – vi siano stati altri fattori che abbiano determinato il successo della cooperazione e del suo radicamento nel tessuto sociale. Questo è il motivo fondante da cui è nato “Le Mani Visibili” e per cui, oltre alla storia del cooperativismo, ho lanciato la necessità di una sociologia del cooperativismo.

Ripercorrendo la storia della genesi del cooperativismo, riporti un motto del borgomastro Wilhelm Raffeisen: "ciò che è precluso al singolo, può essere realizzato da una comunità di persone". Mi pare sia un messaggio di grande attualità. La cooperazione è ancora oggi capace di dare risposte efficaci in questa fase avanzata di finanzcapitalismo in cui viviamo oggi? Si, il messaggio di Raiffeisen è attualissimo. L’idea che i prestiti a soggetti senza garanzie possono essere da stimolo per lo sviluppo del territorio è di grande importanza. La storia del movimento cooperativo è, peraltro, costellata da altre importanti esperienze in campo finanziario etico e solidale. I prodromi sono da rintracciare certamente negli istituti francescani che tra il 15° e 18° secolo operavano, per contrastare l’usura, erogando prestiti di modesta entità. E ancora, va ricordata la pioniera esperienza di Don Luigi Sturzo di Caltagirone che in Sicilia fondò la Cassa Rurale per l’accesso al credito degli imprenditori e delle famiglie in difficoltà. E poi, per richiamare importanti esperienze dei nostri giorni si pensi alla mirabile esperienza di Banca Popolare Etica, che può essere certamente considerata un baluardo della finanza alternativa e niente affatto predatoria.

Queste esperienze si uniscono al lavoro delle tante banche popolari e di credito cooperativo che erogano micro-prestiti a soggetti “non bancabili”, cioè a clienti privi di garanzie patrimoniali, ed in aperta contrapposizione a quanto avviene, invece, purtroppo, per gli istituti bancari tradizionali. Questi ultimi, troppo spesso, alimentano il capitalismo finanziario e agevolano speculazioni finanziarie che sono le principali cause di shock e crisi come quella dei mutui subprime degli inizi del 2000.

Nella sua ricostruzione delle cause della nascita della cooperazione insisti sull'assenza di conflitto fra la forma cooperativa e il "libero mercato". Esse convivono e si rinforzano vicendevolmente Eppure, nella "mitologia" della cooperazione, il profitto sembra porsi all'opposto della pratica cooperativa. Perché?
In una parte nel mio testo insisto sulla discrasia che c’è tra fenomenologia ed ontologia del cooperativismo. Purtroppo nei secoli sono prevalse delle narrazioni sulle imprese cooperative che sono diventate croste utilitarie, verità assolute. Qualche esempio: le cooperative sono antitetiche al mercato, sono troppo piccole ed incapaci d’organizzarsi, sono entità economiche di “serie b” ed assolutamente non competitive se paragonate alle società di capitali. Queste narrazioni hanno sottostimato l’importanza di queste imprese innovative che sin dalle prime esperienze – e mi riferisco sia quella a Rochdale in Inghilterra sia a quella di Torino in Italia di fine ‘800 – hanno invece operato dentro il mercato economico raggiungendo importanti risultati e dimostrando che è possibile, oltre che necessario, fare economia avendo cura ed attenzione delle persone e delle generazioni future.

Lei scrive che "alla cooperazione si è assegnato il ruolo di risemantizzare il senso stesso di benessere e più in generale di felicità collettiva". Mi pare sia un ruolo molto difficile. Qual'è l'esito di questo processo? Vale ancora per i nostri giorni o è cambiato qualcosa?
Dobbiamo ricordarci che l’economia (oikos nomos e cioè “legge della casa”, dicevano i greci) è l’organizzazione delle risorse e dell'attività per il benessere e la felicità pubblica. Questa definizione vale tutt’oggi, non c’è dubbio. Ritengo, allora, che sia necessario mettere in discussione il mainstream liberista che dimentica la “casa comune” e sembra essere, purtroppo, orientato ad arricchire pochi a scapito di molti. Ecco, seppur incastonato dentro i meccanismi del libero mercato, il cooperativismo ha sempre promosso i valori della mutualità e della solidarietà economica. Ha dimostrato che si può fare economia avendo cura della “casa di tutti” e quindi dell’interesse di tutti.

Questi valori, da quel che oggi osserviamo, hanno trovato compimento dentro queste forme economiche organizzate sotto forma cooperativa che, essendo a tutti gli effetti delle imprese, possono legittimamente perseguire l’utile, purché si restituisca centralità al lavoro, al controllo democratico delle strutture produttive, all’interesse verso la comunità, all’autonomia e indipendenza dell’impresa sia rispetto al mercato sia rispetto allo Stato.

Dalle sue analisi emerge come "v'è una certa dipendenza geografica che fa sì che in precise zone si sviluppino dei veri e propri ecosistemi cooperativi. Questi consentono a ciascuna delle imprese di operare efficacemente e di interrelarsi proficuamente con altre di diverso tipo, favorendo così processi virtuosi di scambio e di collaborazione". Quali sono i presupposti socio-economici di questi ecosistemi? Cosa possiamo fare per avviare processi di crescita in contesti più deprivati?
In Le mani visibili ho scritto che la governance cooperativa si può considerare una specie organizzativa di successo per taluni ambiti geografici e per specifici segmenti di mercato. Ci sono intere aree al Centro ed al Nord Italia, ad esempio, dove v’è una diffusione di cooperative impegnate in settori economici importanti. Pensiamo alle attività manifatturiere, ai servizi ma anche al commercio della grande distribuzione organizzata. Al Sud, invece, anche a causa di una più diffusa difficoltà del welfare istituzionale, v’è una marcata presenza di cooperative impegnate in attività sociali ma non solo.

Il cooperativismo e le sue “mani visibili” possono essere la chiave di volta per ri-umanizzare il mercato, per renderlo più civile, forse per portarlo alla sua natura primigenia di luogo di incontro e non di scontro

Umberto Di Maggio

Le condizioni che favoriscono queste dinamiche sono tante. Anzitutto la performance, i buoni risultati. Laddove un gruppo di cooperative opera bene e raggiunge un certo successo sociale ed economico allora molte altre ne nasceranno e lì si radicheranno creando così un’ecosistema virtuoso. Laddove, invece, questi risultati non si raggiungono e accade il contrario, cioè che la nomea è negativa e quindi il pubblico apprezzamento è basso, allora è la catastrofe.

Se poi mi si chiede una ricetta pronta per stimolare la crescita a partire dalla cooperazione devo dire, in tutta franchezza, che non ne ho una pronta. La faccenda è complicata, assai complicata e a noi sociologi insegnano una certa prudenza nel presagire gli scenari futuri. Di certo, però, mi assumo la responsabilità di dire che bisogna smetterla con la retorica dei giovani che salveranno il mondo. È tempo di responsabilità intergenerazionale e a tutti i livelli. È tempo di lungimiranza. Soprattutto è arrivato il momento di dire basta al modello di sviluppo estrattivo che ha prodotto troppe disuguaglianze e povertà. In questo senso, la diffusione tra gli operatori economici e tra i pubblici decisori dei principi cooperativi possono essere un buon punto di partenza.

Di grande interesse per me è l’analisi sull'utilizzo che le organizzazioni mafiose fanno della governance cooperativa per compiere atti corruttivi, con la complicità di professionisti, nello svolgimento di crimini economici e in aggiudicazione di appalti sotto-soglia della Pubblica Amministrazione. Quali sono le ragioni di questa "appropriazione indebita"?
Ho proposto il concetto di “camouflage isomorfo cooperativistico” perché, purtroppo, la forma organizzativa cooperativa è una ghiotta opportunità anche per le organizzazioni mafiose. Lo è semplicemente per criminali senza scrupoli che vogliono aumentare i loro guadagni mascherandosi, appunto, da cooperative, che nei fatti non sono.

La cronaca di questi anni ci consegna troppi casi di costituzioni ad hoc di “cooperative spurie” che niente hanno a che fare con lo spirito autentico della cooperazione. Queste finte cooperative creano dumping, quindi concorrenza sleale, nei confronti di altre società di capitali e soprattutto contro le cooperative vere. Queste finte imprese infrangono metodicamente le norme sulla regolazione del lavoro, dei contratti, della normativa contributiva e fiscale e troppo spesso hanno concorso ed ottenuto, anche, appalti di commesse pubbliche per lo svolgimento di talune specifiche attività di interesse generale. È paradossale, me ne rendo conto, ma uno dei fattori che ha consentito loro d’ottenere incentivi, agevolazioni e di guadagnare spazi di mercato è la reputazione positiva di cui l’intero cooperativismo ancora gode e che consente a quelle finte di usufruire d’immeritate facilitazioni.

Perché non abbiamo ancora compreso appieno "il contributo del cooperativismo dentro la più grande prospettiva dell'analisi morale dell'economia"?
L’homo oeconomicus domina. Il mito della “mano invisibile” che tutto equilibra è un dogma. Il mantra che è necessario consumare a qualunque costo è la regola, anche se a pagare le conseguenze sono le nuove generazioni e l’intero pianeta. Tutto ciò che non si adegua a questo mainstream è relegato ai margini della discussione pubblica, è considerato di poco conto e snobbato. Non può essere così, invece.

Il cooperativismo e le sue “mani visibili”, io credo, possono essere la chiave di volta per ri-umanizzare il mercato, per renderlo più civile, forse per portarlo alla sua natura primigenia di luogo di incontro e non di scontro. Il cooperativismo peraltro per il suo grande contenuto pratico ci insegna, come ci ricorda Weber, che non possiamo affidarci solo ad un’etica dei principi. Non è sufficiente l’etica delle convinzioni che prescinde dalle conseguenze. È invece necessaria un’etica della responsabilità, pratica e concreta che sappia stare nel mondo e sappia cambiarlo in meglio. Il cooperativismo, da quel che vedo, sembra essere calato da sempre in questa seconda prospettiva.

Perché considera così importante porre l'enfasi "sulla figura sociale del cooperatore" piuttosto che sulla "figura del cooperatore sociale"?
Dobbiamo liberare il campo da un fraintendimento. Una cooperativa è un’impresa, ed in quanto tale deve necessariamente perseguire l’utile. Intendo per “utile” la differenza positiva tra ricavi e costi. Quando una cooperativa è in salute eroga stipendi in funzione del lavoro prestato, paga le fatture ai fornitori, investe e, più in generale, consente la diffusione del benessere nel territorio in cui presta la propria attività. Una cooperativa non è quindi un’associazione di volontariato, non è un comitato di cittadini impegnati. La narrazione sulle cooperative, però, insiste su questo fraintendimento e sembra relegare l’attività delle cooperative ad attività imperniate esclusivamente sul volontariato e per questo non generatrici di ricchezza.

Il volontario è una figura necessaria, centrale ma non sufficiente. Non dimentichiamoci che tra le più importanti esperienze cooperative, in Italia e nel mondo, ci sono assicurazioni, banche, cooperative di consumo, agricole, di costruzioni e molto altro che impiegano migliaia di persone e generano fatturati a moltissimi zeri con vantaggi per tutti. Ecco perché ho insistito sulla “figura sociale del cooperatore”. Vale a dire del cooperatore-imprenditore e del cooperatore-lavoratore eticamente orientati e con la funzione sociale di rendere civile il mercato economico.

Lei lavora in Sicilia e insegna a Palermo. Nella sua ricostruzione storica fai accenno alle origini agrarie del cooperativismo e alla tremenda serie di omicidi legati alla lotta per i diritti civili. Qual'è oggi la situazione della cooperazione in Sicilia e quali prospettive di sviluppo vedi nel prossimo futuro?
Il cooperativismo siciliano ha una storia gloriosa. Come non ricordare le cooperative organizzate dai Fasci siciliani dei lavoratori per la gestione dei fondi agricoli a fine ‘800. E ancora, come dimenticare le lotte sindacali a ridosso delle grandi guerre per il riutilizzo dei feudi spesso appannaggio di Cosa Nostra. In ultimo, come non andare fieri delle bellissime esperienze cooperative, di riutilizzo produttivo dei beni confiscati alle mafie, nate proprio in Sicilia dopo le stragi degli anni ‘90. Dobbiamo essere orgogliosi di queste storie perché in ciascuna di queste esperienze c’è una chiara impronta: è possibile generare ricchezza condivisa che sia improntata alla legalità, alla giustizia sociali ed alla tutela e promozione dei diritti.

Dobbiamo liberare il campo da un fraintendimento. Una cooperativa è un’impresa, ed in quanto tale deve necessariamente perseguire l’utile. Intendo per “utile” la differenza positiva tra ricavi e costi. Una cooperativa non è quindi un’associazione di volontariato

Umberto Di Maggio

Allargando lo sguardo, va detto, inoltre, che le cooperative, più in generale in Sicilia e al Sud sopratutto, sono una leva importantissima di sviluppo. Sono migliaia i posti di lavoro offerti nei settori del turismo, della cultura, dell’educazione e formazione, del commercio, della produzione agricola ed industriale, dei servizi. Dunque, non si può prescindere dal cooperativismo soprattutto perché, ci tengo a ri-sottolinearlo, grazie ad esso è possibile rendere più giusta ed equa l’economia ed è possibile uno sviluppo più umano e responsabile. Una sfida impegnativa a queste latitudini così complicate.

Concludo questo nostro incontro ritornando al titolo del volume. Le "mani visibili" dei cooperatori hanno sempre più bisogno di ritrovare le "ragioni originarie" che portarono alla "messa in comune" di risorse e intelligenze. La crisi causata dal Covid-19 impone di ripensare lo sviluppo economico alla luce di categorie come la prossimità, la cura, l'impegno civile e morale. Ho scritto in passato che il futuro "sarà cooperativo o non sarà". Qual è l'augurio che rivolgi al mondo della cooperazione dal sui punto d'osservazione?
Durante la pandemia abbiamo imparato quanto siano importanti le relazioni sociali. Soli e costretti in casa e lontano dai nostri affetti ci siamo resi conto dell’importanza di un abbraccio, di una chiacchierata con un amico, un parente, un collega. Il distanziamento sociale forzato però ci ha spinti a sperimentare nuove forme di collaborazione che pensavamo impossibili da praticare. Questa crisi ci ha messo spalle al muro e da lì ci siamo accorti del dovere di essere resilienti e collaborativi.

Ci siamo accorti che non possiamo fare a meno gli uni degli altri e che proprio nelle relazioni c’è l’essenza ultima della nostra esistenza. Pensiamo alle innumerevoli attività di solidarietà che si sono sviluppate nelle nostre città a supporto dei poveri, dei malati e di tutti quei nostri concittadini che, malgrado bisognosi, non sono stati raggiunti dai servizi sociali.

Pensiamo anche alle tante iniziative di giovani e meno giovani che si sono reinventati e organizzati cooperando, dando così una risposta, per quel che si è potuto, alle tante sofferenze. Pensiamo, anche, ad un altro fronte e allo spirito cooperativo che ha animato gli sforzi degli scienziati che hanno condiviso i dati ed i risultati delle proprie ricerche per potere produrre, in tempi brevissimi, un vaccino e diffondere le necessarie cure alla malattia.

Queste sono le ragioni originarie della cooperazione, della messa in comune delle risorse e delle intelligenze per un fine che è più grande dell’arricchimento privato. Tra qualche tempo ci ricorderemo di questo triste periodo e lo derubricheremo come una delle pagine più impegnative della storia moderna dell’umanità. Non dimenticando le tante vittime che abbiamo dovuto contare e che ancora contiamo, dobbiamo comunque essere sicuri che usciremo da quest’incubo e la società Post-Covid non potrà che essere più giusta, più equa e più cooperativa. Non può essere altrimenti.


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