Idee L'economia dei dazi
Le guerre commerciali? Sintomo dei conflitti redistributivi all’interno dei singoli Stati
il commercio estero e la finanza globale stanno diventando i canali attraverso cui esternalizzare le conseguenze di decisioni redistributive interne ai singoli Paesi. Sono la diseguaglianza dei redditi, l’indebolirsi del potere d’acquisto dei lavoratori e in ultima analisi le scelte su come investire i profitti a determinare l’agenda della politica commerciale

Quando i dazi diventano una strategia strutturale e non un’eccezione temporanea, ciò che si manifesta non è un semplice ritorno al protezionismo, ma il segnale evidente di squilibri che non possono più essere interpretati alla luce delle tradizionali narrazioni sul commercio internazionale. In Le guerre commerciali sono guerre di classe, Matthew C. Klein e Michael Pettis già nel 2020 propongono una tesi chiara che getta luce nuova su quanto stiamo assistendo in queste settimane, con la guerra dei dazi che l’amministrazione Trump sembra volere scatenare con il mondo (sia essa una strategia negoziale o un meccanismo per riequilibrare il disavanzo commerciale): i conflitti tra Paesi sono spesso l’effetto collaterale di tensioni redistributive irrisolte all’interno di quegli stessi Paesi. Non è la Cina che sfida gli Stati Uniti, ma l’élite cinese che cerca sbocchi per un surplus interno creato comprimendo i redditi da lavoro, trovando come controparte una classe media americana indebolita. Non è la Germania in opposizione al Sud Europa, ma un modello economico tedesco che favorisce le imprese esportatrici e gli investitori a scapito dei lavoratori italiani, greci o spagnoli. In questa prospettiva, il commercio estero e la finanza globale diventano i canali attraverso cui si esternalizzano le conseguenze di decisioni redistributive interne ai singoli Paesi. È la diseguaglianza dei redditi, l’indebolirsi del potere d’acquisto dei lavoratori e in ultima analisi le scelte come investire i profitti a determinare l’agenda della politica commerciale.
Alla base della tesi di Klein e Pettis vi è un’osservazione macroeconomica: i surplus commerciali cronici non sono necessariamente indice di forza competitiva, ma di debolezza della domanda interna. Se, in economie come la Cina o la Germania, i salari reali crescono meno della produttività, in un contesto inflattivo e di riduzione del potere d’acquisto reale, significa che una parte del reddito generato non viene redistribuito in modo da incentivare il consumo, ma accantonato sotto forma di patrimonio. Questi surplus non vengono investiti in modo produttivo all’interno del Paese, ma vengono riversati all’estero: come capitale in cerca di rendimento, come esportazioni in cerca di domanda. È un processo che non deriva da un mandato popolare, ma da assetti istituzionali e politici che privilegiano la concentrazione della ricchezza. È il prodotto di una scelta redistributiva implicita: meno salari, meno welfare, meno consumo, più risparmio forzato, più dipendenza dall’export.
Questa dinamica ha come contraltare strutturale l’esistenza di economie in deficit, disposte o costrette ad assorbire l’eccesso di produzione altrui. Gli Stati Uniti hanno svolto questo ruolo per decenni, garantendo un mercato di sbocco globale attraverso l’espansione del credito e il consumo interno alimentato dall’indebitamento (anche a breve, soprattutto delle classi più povere). Il risultato, tuttavia, non è un equilibrio virtuoso, ma una fragilità sociale crescente, in cui il debito privato e pubblico sostituisce il reddito da lavoro come fonte di sostentamento e partecipazione economica. L’intero sistema globale si configura come una geometria di squilibri: mentre le élite esportatrici traggono profitto dalla compressione salariale e dalla proiezione esterna della domanda, le élite finanziarie dei Paesi importatori capitalizzano sulla creazione e gestione del debito. I lavoratori, in entrambi i contesti, subiscono gli effetti di una competizione che non migliora le condizioni generali, ma accresce l’instabilità.
I dazi, in questa logica, sono il sintomo del problema. Una risposta tardiva a uno squilibrio profondo tra capacità produttiva e potere di acquisto, tra valore generato e valore distribuito. Klein e Pettis invitano a rileggere la macroeconomia globale come un sistema chiuso, in cui ogni risparmio eccessivo in un Paese implica un indebitamento altrove. Quando il risparmio non è frutto di una virtù collettiva, ma della concentrazione del reddito in poche mani, allora l’indebitamento non è più una scelta, ma una necessità per garantire quel potere d’acquisto necessario a piazzare merci e servizi. La concentrazione di ricchezza oggi genera povertà nel futuro. Stiamo impegnando i salari che guadagneremo nei prossimi anni. In questo contesto, il commercio internazionale non rappresenta uno scambio tra pari, ma una modalità per trasferire squilibri interni verso l’esterno. La compressione della domanda in Cina o in Italia diventa eccedenza produttiva venduta fuori dai confini, mentre la fragilità sociale negli Stati Uniti si traduce in deficit di bilancia dei pagamenti, risentimento, tensioni politiche e dipendenza finanziaria.

Il caso statunitense rimane il più emblematico. Formalmente, un Paese ricco, con una moneta di riserva globale e un mercato interno ampio. Nei fatti, un sistema che ha fatto della finanziarizzazione dei consumi e della privatizzazione del welfare il proprio modello di crescita, permettendo alle élite di accumulare ricchezza offrendo credito alle classi più povere all’interno o nel resto del mondo. L’indebitamento delle famiglie ha compensato l’erosione del potere d’acquisto, mentre le esportazioni cinesi o europee trovavano un mercato di sbocco garantito. La disuguaglianza interna americana è diventata la condizione stessa di funzionamento del sistema globale.
L’Italia ha scelto una strategia di competitività basata sulla moderazione salariale, anziché sull’innovazione e sull’aumento della produttività. I dati Ocse come noto confermano che i salari reali medi nel nostro Paese sono inferiori a quelli di trent’anni fa: una tendenza unica nel contesto europeo
Applicare questa lettura all’Italia significa osservare effetti negativi sovrapposti, il peggio dei due modelli: la compressione salariale interna e l’incapacità di reinvestire i profitti in attività produttive. L’Italia ha scelto una strategia di competitività basata sulla moderazione salariale, anziché sull’innovazione e sull’aumento della produttività. Ne è derivata una stagnazione dei redditi, una contrazione della domanda interna e una crescente dipendenza dalle esportazioni. L’industria italiana ha affrontato la concorrenza dei Paesi a basso costo bloccando la crescita dei salari o peggio delocalizzando, mentre i lavoratori hanno visto peggiorare le proprie condizioni economiche e contrattuali. I dati Ocse come noto confermano che i salari reali medi in Italia sono inferiori a quelli di trent’anni fa: una tendenza unica nel contesto europeo.
Nel frattempo, anche l’Italia ha accumulato un avanzo delle partite correnti, in particolare a partire dal 2013, fino all’aumento dei costi energetici nel 2022, che ha inflazionato il prezzo degli acquisti e ha spinto l’economia italiana a importare più di quanto esporti. Ma si è trattato di una frenata temporanea, con il segno più che ha caratterizzato il 2023 fino a inizio 2025. Tuttavia, questo surplus non si è tradotto in investimenti strategici, né in una crescita significativa della produttività o dei salari. In assenza di una politica industriale coerente e di una strategia fiscale redistributiva, il capitale è stato in parte esportato e in parte convertito in investimenti finanziari o immobiliari, con un effetto limitato sulla crescita potenziale del Paese. È un modello di accumulazione difensivo, in cui i profitti non alimentano un ciclo virtuoso di sviluppo, ma vengono destinati alla rendita (per approfondire questo tema vi consiglio la lettura del capitolo 3 del numero di VITA magazine di questo mese) o alla conservazione patrimoniale, allocati in rendimenti finanziari o in attività glamour. Il capitale italiano ha contribuito al mancato riequilibrio, mostrando tratti di egoismo economico: ha protetto sé stesso, ma non ha investito nel futuro produttivo del Paese. La struttura familiare e frammentata del nostro tessuto produttivo, unita a una governance spesso orientata al breve termine, ha favorito strategie conservative, in cui prevale la difesa della posizione acquisita rispetto alla scommessa sull’innovazione. I risultati sono evidenti: bassa crescita, stagnazione salariale, aumento delle disuguaglianze. Il lavoro, in questo quadro, non solo è stato svalutato, ma ha perso potere economico e voce politica. Le esperienze virtuose di alcuni piccoli e medi imprenditori sono allora doppiamente lodevoli perché controcorrente rispetto alle scelte delle famiglie del salotto buono erroneamente viste come modelli.
Klein e Pettis offrono così una chiave interpretativa utile anche per leggere le dinamiche italiane: non è sufficiente osservare gli scambi commerciali come fatti neutri o tecnici, né attribuire le distorsioni alla concorrenza internazionale. Le guerre commerciali non sono tanto effetto di tensioni tra nazioni, ma manifestazioni di conflitti redistributivi interni, in cui la linea di frattura corre tra chi genera valore e chi lo trattiene. Da questo punto di vista, le politiche protezioniste sono risposte sbagliate a problemi reali.
Questo articolo anticipa i temi del numero di maggio di VITA magazine, dedicato al rapporto tra rendita e lavoro: un viaggio collettivo a più voci dentro le fratture del capitalismo italiano e contemporaneo.
Foto La Presse: Il presidente Trump all’incontro d’affari tra Stati Uniti e Qatar
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