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Da Sinner alla scuola: perché amiamo il sacrificio, ma solo se non ci riguarda?

Perché, mentre applaudiamo i sacrifici di Sinner nutriamo una crescente diffidenza di fronte a qualsiasi proposta educativa che chieda sacrificio, costanza, presenza? Forse che la fatica è un valore da celebrare purché non ci tocchi troppo da vicino? Riflessioni a margine della vittoria di Sinner a Wimbledon

di Francesca Gennai

Jannik Sinner con la coppa di Wimbledon

Finalmente abbiamo un numero uno al mondo e così siamo tutti un po’ tennisti. Seguiamo Jannik Sinner con un’attenzione quasi devota, esultiamo per ogni sua vittoria e rilanciamo sui social ogni immagine che lo ritrae vincente. L’ultima, quella di Wimbledon. Fra un game e l’altro, oltre alle innumerevoli pubblicità che lo vedono protagonista, scorrono anche i video che raccontano la sua incredibile ascesa. Montaggi costruiti con musica epica, che alternano immagini di sconfitte, inquadrature strette su un giovanissimo Jannik alle prese con un tapis roulant più grande di lui, il volto tirato, gli occhi stanchi. E poi sul finale la ricompensa al sacrificio: sorrisi, trofei, coriandoli. 

Le immagini sono intervallate da alcune sue frasi. Due, tra tutte, colpiscono. La prima chiama in causa la sua famiglia: «Solo i miei genitori sanno quanti sacrifici ho fatto». Parole che parlano di un’adolescenza diversa, segnata dall’impegno prima ancora che dalla leggerezza. E che riportano alla mente un altro volto del tennis, quello provato di Misha Zverev, che pochi giorni fa ha dichiarato: «Mi sento molto solo nella mia vita, non sono mai stato così vuoto. Non provo più gioia». Due immagini a cui potremmo aggiungerne altre, unite dal filo sottile del sacrificio e del prezzo, spesso invisibile, che l’eccellenza porta con sé. 

Poi arriva l’altra frase, forse ancora più potente: «Essere sotto pressione è un privilegio». Non è una battuta ad effetto, ma una visione. In più occasioni Sinner ha spiegato che la pressione per lui è qualcosa di buono, da desiderare. È quella spinta che gli permette di “danzare nella tempesta”, di tirare fuori il meglio di sé. La pressione, quindi, non come un ostacolo da evitare, ma come un campo di possibilità. Un segno, anche, della fiducia che gli altri ripongono in lui: «Quando hai pressione, significa che la gente crede che tu ce la possa fare».

«Essere sotto pressione è un privilegio». ha detto Sinner. Perché queste parole ci sembrano così nobili se dette da un atleta che ha solo 23 anni, e così problematiche invece quando riguardano la scuola, l’educazione, o il lavoro quotidiano?

Ci piacciono i vincenti, i campioni e ci piace averne uno tutto nostro. E allora una domanda sorge spontanea: perché queste parole ci sembrano così nobili, se dette da un atleta che ha solo 23 anni, e così problematiche invece quando riguardano la scuola, l’educazione, o il lavoro quotidiano? Perché, mentre applaudiamo i sacrifici dei nostri idoli, continuiamo a porci con crescente diffidenza di fronte a qualsiasi proposta educativa che chieda costanza, energia, presenza? Forse che la fatica è un valore da celebrare purché non ci tocchi troppo da vicino? Come se la crescita fosse possibile solo a condizione che non costi nulla.

Siamo pronti ad applaudire chi si è svegliato alle cinque del mattino per anni, ha saltato vacanze, amici, leggerezze. Ci emozioniamo per il bambino Jannik che ad appena 13 anni si trasferisce da solo in Liguria, lontano dalla sua Val Pusteria, per inseguire un sogno. Ma al contempo, discutiamo se sia lecito o meno chiedere a uno studente di sostenere un esame di maturità e accusiamo spesso la scuola di “pretendere troppo”, di essere ancora legata a modelli educativi “prestazionali”, “meritocratici”, “stressanti”.

Certo, il paragone fra un percorso formativo obbligatorio e l’eccezionalità di una carriera sportiva non regge. Ma non possiamo nemmeno ignorare che ogni sistema educativo è, nel suo piccolo, un campo da gioco. Dove si impara il valore della costanza, il confronto con i limiti, la gestione della frustrazione, la capacità di rialzarsi. Tutte cose che nei video celebrativi degli atleti ci commuovono. Ma che, nel contesto scolastico (e azzardo a dire anche in quello lavorativo) troppo spesso scandalizzano.

Sullo sfondo del campo centrale del Roland Garros, dove da poco è stata posta la targa in ricordo delle 14 vittorie di Rafael Nadal, è incisa una frase: «Victory belongs to the most tenacious», la vittoria appartiene ai più tenaci. Ecco, invece nella nostra discussione pubblica sembriamo dire il contrario: che l’impegno e la pressione siano un male da evitare, e non strumenti da imparare a gestire.

Perché accettiamo il sacrificio solo quando diventa spettacolo o denaro? Perché nei nostri idoli lo celebriamo, mentre per i nostri figli (o per noi stessi) lo condanniamo?

Allora la vera domanda è: perché accettiamo il sacrificio solo quando diventa spettacolo o denaro? Perché nei nostri idoli lo celebriamo, mentre per i nostri figli (o per noi stessi) lo condanniamo? È davvero educativo pensare che si possa ottenere qualcosa senza mai essere messi sotto pressione? Forse, più che dibattere se sia migliore un modello educativo “richiestivo” o uno “accogliente”, dovremmo iniziare a riconoscere che crescere, in qualunque campo, implica fatica. E che il vero privilegio non è evitarla, ma imparare a darle senso.

Foto AP Photo/Kin Cheung/Associated Press/LaPresse

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