Famiglia
Affido: il bene della vita e il bene della cura
“Proteggere l’essere figli” apparentemente è qualcosa che cozza con il “rilanciare l’affido familiare”: invece il futuro dell’affido passa proprio dal vedere lo stretto legame tra queste due cose e dal saperlo realizzare. Raffaella Iafrate (Università Cattolica): «Il problema è che oggi non tutti riconosciamo il valore dell’affido. L’affido è un atto di fiducia comunitario»
«Tutti siamo figli. E dire figlio significa fare riferimento a chi ti ha generato. Avere un’appartenenza familiare, dentro una catena tra le generazioni è lo zoccolo duro della nostra identità: per questo ogni bambino difende strenuamente la sua famiglia di origine e per questo l’allontanamento di un figlio è vissuto dalla famiglia come un attacco identitario. L’uomo sa di essere figlio. Non è mosso solo dalla pulsione procreatrice, che guarda in avanti: è l’unico che sa volgersi indietro ai suoi generanti. E che si sente legato a loro non solo finché ne ha bisogno per sopravvivere, ma per sempre».
Eugenia Scabini, professoressa emerita di Psicologia Sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente del Comitato Scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia ha aperto così – venerdì 14 giugno a Milano – il convegno “Rilanciare l’affido familiare: l’interesse del minore nei percorsi di accoglienza”. Una giornata intera di riflessione sull’affido familiare, la sua bellezza e le sue criticità, mentre fuori, sull’affido, si torna a soffiare sul fuoco della generalizzazione e del sospetto alimentato ad arte: la vicenda dell’affidamento a tempi di record di due fratellini nigeriani a una coppia di donne, di cui una dipendente dello stesso Comune di Torino (il merito lo lasciamo alla magistratura) diventa subito l’occasione per parlare sui giornali di «racconti da brivido» e di una «Bibbiano due», pur sapendo che il presunto scandalo Bibbiano in Tribunale è finito in nulla. Torino, culla dell’affido in Italia, ma anche dell’Allontanamento Zero.
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Proteggere l’essere figli
La professoressa Scabini ha scelto per il suo intervento un titolo apparentemente semplice, quasi scontato: Proteggere l’essere figli. Un titolo in realtà profondamente coraggioso, perché nel dipanarlo ha mostrato quanto le stesse parole possano avere significati radicalmente diversi. Sbaglia infatti chi in quel titolo pensasse di sentire risuonare le stesse parole d’ordine delle grida meloniane e salvinane: «Il bene della vita è un bene fragile, per diventare risorsa ha bisogno di essere accompagnato da un altro bene, il bene della cura», ha sottolineato Scabini. «Proteggere l’essere figlio non è solo garantire l’accudimento materiale del bambino, ma garantire affetto, calore, guida e protezione, rivolti a quel singolo specifico figlio. Caratteristica fondamentale del figlio è questa unicità, l’essere visto nella propria unicità e avere la percezione e la consapevolezza di ciò».
Il bene della vita è un bene fragile, per diventare risorsa ha bisogno di essere accompagnato da un altro bene, il bene della cura
Eugenia Scabini
Quando la famiglia che ha dato il bene della vita non è in grado, per le ragioni più disparate, di garantire anche il bene della cura, ecco che il sociale ha un compito di tutela, «ma deve tenere presente il contesto primario di appartenenza del bambino, cioè la famiglia di origine, che va sostenuta essa stessa. Il buon andamento dell’affido è legato certamente alla capacità della famiglia affidataria di fornire al bambino buone relazioni, ma anche alla sua capacità di aprirsi alla famiglia naturale o quantomeno di non considerarla un ostacolo. Per la famiglia di origine, invece, si tratta di fare i conti con il compito di lasciare andare il figlio, accettando la propria inadeguatezza: queste famiglie vanno aiutare a vedere un piccolo spazio di speranza, che sta nel capire che il loro “passo indietro” è un bene per il figlio».
La libertà di non dover scegliere
Qual è il segno di un affido riuscito? «Quando il bambino sente che non deve scegliere una o l’altra famiglia, ma che può sentirsi parte della famiglia di origine potendo contare sulle risorse che gli offre la famiglia affidataria. Non doversi schierare, poter godere di entrambi. Il segno di un affido riuscito è la libertà di apparenza a entrambe le famiglie», risponde Scabini. «I bambini in affido sono “figli al confine”, in bilico tra due appartenenze: quella con la famiglia di origine che gli ha dato la vita – che è un dono ma anche un debito – e quella con la nuova famiglia che gli offre il bene della cura. È un equilibrio che non è mai raggiunto una volta per tutte», conclude Scabini.
L’affido come co-genitorialità
Raffaella Iafrate, prorettrice dell’Università Cattolica e ordinaria di Psicologia Sociale, nella tavola rotonda tra le associazioni e le istituzioni, ribadisce che «l’affido è uno strumento prezioso per proteggere un diritto fondamentale della persona, che è il fatto di essere figlio: una condizione che ci accomuna tutti ma che non sempre è garantita dalla famiglia di origine. Le persone diventano figli non solo nel momento in cui sono generate ma anche nel momento in cui sono curate, accudite, affettivamente accolti. È l’insieme di tutte queste dimensioni che costituisce il diritto ad essere figlio. A volte le famiglie fanno fatica a tenere insieme e realizzare tutti gli aspetti, ci sono incidenti di percorso che non consentono la realizzazione di tutte queste dimensioni e quindi l’idea che ci siano altre famiglie che si fanno carico degli aspetti di carenza, di fatica e di fragilità di alcune famiglie per aiutare il bambino a crescere come figlio a tutti gli effetti credo che continui ad essere uno strumento preziosissimo, quasi profetico. L’idea alla base dell’affido è che la famiglia affidataria non sia sostitutiva ma sia compensativa e collaborativa, che si parli di una co-genitorialità insieme alla famiglia di origine. Una famiglia in più che accompagna per un pezzo si strada. A volte questa strada può essere molto lunga, ma la cosa importante è che per il bambino continuino a coesistere le due dimensioni dell’esser figlio, perché questo è molto protettivo per la sua identità».
Il valore dell’affido? Non tutti lo riconoscono
Quanto al clima di sospetto e ostilità nei confronti dell’affido che titoli di stampa che parlando di una “Bibbiano due” palesano, come si conciliano con il fatto che – almeno a parole – tutti riconosciamo il valore dell’affido? «Tutti… non sono così convinta», ammette Iafrate. «Il vero problema è che oggi non tutti riconosciamo il valore dell’affido. Penso che tanto del discredito che è stato gettato su questo strumento sia dipeso da posizioni che non hanno capito fino in fondo lo strumento dell’affido, come lo abbiamo descritto prima: c’è questa idea competitiva tra famiglie che accolgono e famiglie che espellono, quando invece bisogna ricostruire una cultura dell’importanza della dimensione relazionale del soggetto, che significa che i bambini devono vivere dentro relazioni sane e quando questa cosa non è loro garantita, hanno bisogno che ci sia il sociale che se ne faccia carico. Questo è un punto fortissimo della cultura a supporto dell’affido, se non vogliamo rischiare derive».
Tutti almeno a parole riconoscono il valore dell’affido? Non ne sono così convinta. Il vero problema è che oggi non tutti riconosciamo il valore dell’affido. Tanto del discredito che è stato gettato su questo strumento è dipeso da posizioni che non hanno capito fino in fondo che cos’è davvero l’affido
Raffaella Iafrate
Quello che questa giornata prova a fare «è ricostruire un clima di fiducia: nella parola affido c’è la parola fiducia, ma negli ultimi anni spesso è mancato il fidarsi dell’altro. L’affido è una scena complessissima, con tantissimi protagonisti e il rischio è che ognuno lavori solo per il suo pezzettino, mentre famiglie, associazioni, istituzioni, tribunali per i minorenni dovrebbero lavorare in ottica di fiducia comunitaria. L’affido è un atto di fiducia comunitaria in cui ciascuno si fida dell’altro perché sa che l’altro opererà per il bene del bambino, che è la possibilità per il bambino di recuperare il diritto ad essere figlio. Credo che se ne esca solo facendo questo lavoro di confronto, di ricostruzione del senso, uscendo da una logica di competizione per arrivare a una logica di condivisione».
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Foto di apertura di Andriyko Podilnyk su Unsplash. Nell’articolo, foto di Marta Carenzi, Università Cattolica del Sacro Cuore
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