Verso il referendum
Alina, italiana da pochi giorni: «Sono nata qui e non so una parola di rumeno, ma l’iter per la cittadinanza è stato umiliante»
Sentirsi italiani, ma non esserlo ufficialmente. Decidere di diventarlo al compimento dei 18 anni per poter votare e partecipare alla vita civile del proprio Paese. Ed è qui che ci si scontra con la burocrazia: «Ti chiedono perfino l'attestato delle scuole materne, anche se stai facendo il liceo classico...»

Alina è nata in Italia 18 anni fa. Forse per questo pensava, era certa, di essere italiana. «Quando sentivano il mio cognome mi chiedevano se fossi italiana. E io rispondevo di sì. Poi un’amica mi ha fatto venire il dubbio: allora ho chiesto a mia mamma e lei mi ha detto che no, non ero italiana: ero rumena come lei».

Non essere italiana non ha significato molto per lei, fino a poco tempo fa.
«Poi hanno iniziato a pesarmi soprattutto le domande degli amici, il loro stupore quando scoprivano che non avevo la cittadinanza. Oppure ricordo quando siamo partiti per il viaggio di istruzione con la scuola: c’era l’elenco dei nomi e accanto l’indicazione della cittadinanza. Ero l’unica a non averla italiana. Ed ero l’unica ad avere il passaporto, anziché la carta d’identità. Ho iniziato a sentirmi a disagio»
Volevo votare, lo sentivo come un dovere
Finché si è piccoli, o comunque giovanissimi, avere o non avere la cittadinanza italiana fa poca differenza: è quando si cresce, si diventa maggiorenni e poi adulti, che l’impatto inizia a sentirsi, sotto forma di opportunità che vengono negate: come le borse di studio, o i concorsi pubblici. O, peggio ancora, sotto forma di diritti che vengono negati: come il diritto al voto. «Compiuti 18 anni, volevo votare, sentivo di doverlo fare. Il referendum dell’8 e 9 giugno sarebbe stata la prima occasione e non volevo mancarla. E pensare che avrei già potuto votare per le elezioni in Romania e non l’ho fatto, non ci ho proprio pensato: questo fa capire quanto mi sentissi rumena!».
Nei “meandri” della cittadinanza
E così Alina, d’accordo con la mamma, ha deciso di chiedere il riconoscimento di quella cittadinanza che da sempre sentiva propria. Ed è iniziata un’avventura che Alina sente il bisogno di raccontare, per quel senso di rabbia e frustrazione che le ha lasciato dentro. «Qualche settimana fa, insieme a mia mamma, sono andata al Comune, con tutti i documenti che servivano per presentare la richiesta. L’impatto è stato subito scioccante: al centro di Roma, su quella bella piazza, un ufficio così squallido, triste e poco accogliente. Ma sono state soprattutto le persone a impressionarmi: non ho mai assistito a un razzismo così esplicito ed evidente, sembrava che gli impiegati non si preoccupassero di nasconderlo. Erano scorbutici, esauriti, trattavano male tutti, ma soprattutto chi parlava male l’italiano o non aveva la pelle bianca. Con me e mia mamma, che parliamo bene l’italiano e abbiamo i tratti europei, erano un po’ più gentili. A un certo punto mi è sembrato che una delle impiegate, mentre faceva commenti antipatici sui presenti, cercasse la mia complicità. Ovviamente non l’ha trovata, anzi l’ho fulminata con lo sguardo. Eravamo come un gregge di pecore, tutti ammassati, ci facevano entrare a gruppi».
Pagelle, documenti e code e giorni di scuola persi
Era mattina, perché l’Ufficio cittadinanza è aperto solo la mattina, solo un giorno a settimana fa orario continuato fino alle 16,30: questo significa un giorno di scuola perso per i ragazzi, un giorno di ferie per gli adulti, non sempre facile da ottenere. «Dopo una lunga attesa, ci hanno fatto entrare con altre 10-15 persone e abbiamo scoperto che, per 80 persone che dovevano chiedere la cittadinanza, c’erano solo due sportelli. Noi eravamo le ultime. Siamo capitate con la ragazza più giovane, un po’ più gentile della sua collega dell’altro sportello. Appena ci siamo avvicinate, mi ha guardata e mi ha detto: “Non sembri felice di stare qua”. In effetti ero stanca, stressata e frustrata per quello che avevo visto e sentito, non c’era proprio bisogno che lo sottolineasse. Mia madre ha risposto: “Si è spaventata vedendo tutto questo”. Io avrei voluto risponderle molto peggio, “asfaltarla”, insomma, ma non mi ha dato modo. Ha iniziato a chiedermi i documenti. Pensavamo di avere tutto, ma lei ci ha chiesto le pagelle e un attestato di frequenza delle materne. Io non ho portato niente di tutto questo: essendo nata in Italia, non pensavo servissero!».
Intanto, allo sportello accanto, stessa scena: «Una ragazza del 2007 aveva portato tutto tranne le pagelle, ma a lei l’impiegata l’ha fatto pesare, l’ha proprio rimproverata. E la ragazza è scoppiata a piangere. Questo mi ha fatto ancora più male, la capivo, perché anche a me veniva da piangere per lo stress e la rabbia: mi sembrava assurdo dover fare tutto questo per diventare italiana, quando sono in Italia, mi sono sempre sentita italiana e non conosco una parola di rumeno. Sto per prendere la maturità classica e mi chiedono l’attestato delle materne! Ho fatto alla ragazza accanto un sorriso d’intesa, per farle capire che almeno io la comprendevo, eravamo sulla stessa barca».
Quella mattinata faticosa si è conclusa con la promessa di un nuovo appuntamento, non appena fossero arrivate le pagelle richieste. «A quel punto temevo di non fare in tempo per il referendum, ero quasi rassegnata. Invece, con mio grande stupore, i documenti sono arrivati in pochi giorni e ho ricevuto la mail con un nuovo appuntamento, per il 20 maggio alle 8.30. Un altro giorno di scuola perso, ma forse avrei finalmente avuto il mio documento!».
Tra un intoppo e un altro
C’era però ancora qualche intoppo, nel complesso ingranaggio della burocrazia: «C’era scritto, nella mail, che avrei dovuto pagare una bella somma: 250 euro più 35 euro per il giuramento! Anche questo mi è sembrato assurdo, non sono pochi soldi. Nella mail però mancavano i bollettini, ho scritto due volte per chiederli ma non ho avuto risposta. Così il 20 sono andata al Comune senza aver pagato ed ero ancora più stressata per questo: cosa mi avrebbero detto? E infatti all’inizio mi hanno rimproverato, ma poi hanno visto con i loro occhi che i bollettini nella mail non c’erano. Insomma, avevano sbagliato loro. In ogni caso, il disagio è stato tutto nostro: siamo dovute uscire, andare alla posta, neanche vicinissima, fare la fila, pagare e poi tornare in Campidoglio».
Giuramento e niente foto ricordo
Finalmente, era giunto il momento fatidico del giuramento. «Prima sono entrata per firmare: sembrava un contratto, mi veniva da ridere. Poi sono uscita e ho aspettato che altri due firmassero. A quel punto ci hanno fatto entrare in tre nella stanza del giuramento, c’era un quadro con la foto di Mattarella appesa al muro: mi sembrava tutto paradossale, non riuscivo a non ridere. Alla fine mi hanno chiesto se volessi una foto. Ho detto di no. Hanno cercato di convincermi: “È un ricordo”, mi hanno detto. “Un brutto ricordo”, ho risposto. Mia mamma si è arrabbiata, ha detto che non avrei dovuto rispondere così!».

Oggi Alina è italiana. «Solo da oggi eh, perché fino a ieri ero rumena!», precisa sorridendo. Non è stata certo una bella avventura, «ma sicuramente per altri la trafila è ancora peggiore e ancora più umiliante. Intanto l’8 giugno andrò a votare, ancora più consapevole e convinta, soprattutto per il quesito sulla cittadinanza!».
Nell’immagine in apertura Alina – tutte le immagini fornite dall’autrice
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