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Il movimento Rewriters.it ha lanciato un originale questionario per spronare le imprese a misurare il proprio grado di sostenibilità sociale. Ne parliamo a tutto campo con l’antropologa Cristina Cenci, tra le curatrici del progetto a carattere scientifico

di Nicola Varcasia

I dati, come sempre, bisogna saperli leggere. Ad esempio, una recente indagine tra studenti e studentesse tra i 16 e i 18 anni ha fatto emergere che l’87% dei ragazzi dichiara di aver sentito parlare dell’Agenda 2030. Tutto bellissimo. Quando, però, è stato chiesto loro di associare tre parole al termine sostenibilità, sono state citate “solo” ambiente, riciclo, energia. Come a dire: nei più giovani l’intera tematica della sostenibilità è “schiacciata” sul green e sull’ambiente. Poco o nulla sui temi sociali, l’ormai famosa Esse dell’acronimo Esg che, ispirandosi proprio all’Agenda 2030, riunisce le facce della sostenibilità riconoscendo la reciprocità tra la dimensione ambientale (Environmental), sociale (Social) e della buona gestione (Governance).

Principi all’opera

Che fare, allora, per recuperare la Esse? VITA dedica costantemente attenzione a questo tema, lo ha fatto anche con lo scorso numero di ottobre e continua a monitorare le novità. Una di queste, che coinvolge i percorsi di sostenibilità delle imprese, la presenta Cristina Cenci, antropologa, presidente della start up Reworld, in rappresentanza del pool di realtà accademiche, culturali e sociali che, sulla base di un manifesto riassuntivo, hanno realizzato un questionario, chiamato S-assessment, rivolto alle aziende per misurare il loro grado di sostenibilità sociale. Non per certificarlo, a questo pensano altri enti ed organizzazioni, ma per aiutarle a prendere più consapevolezza e slancio nel loro approccio e nei loro progetti.

Dottoressa Cenci, partiamo da quell’alert arrivato da una vostra indagine sugli studenti, che ha svelato quanto anche tra i giovani la sostenibilità sociale sia rimasta indietro.

Fa riflettere il fatto che ai primi posti non si sia classificata neanche la parità di genere. Restando al nostro tema, se i nostri studenti stanno interiorizzando una percezione della trasformazione in atto come solo ambientale, questo non fa bene neanche all’ambiente, perché sappiamo quanto i comportamenti, gli stili di vita e le relazioni sociali siano importanti. È fondamentale riportare in campo la “Esse” del sociale in una modalità sistemica e connessa alla “E” dell’ambiente.

Da qui è nato il vostro lavoro per le imprese.

Ci siamo avventurati in questa sfida assieme a Eugenia Romanelli, fondatrice del movimento culturale Rewriters che, con la start up sociale innovativa Reworld, da lei stessa avviata e di cui è amministratrice delegata, ha redatto un manifesto in 16 punti, che vanno dalla responsabilità intergenerazionale alla body positivity, dove sono tematizzate alcune delle componenti che riteniamo essenziali della sostenibilità sociale. Un lavoro che abbiamo svolto con la collaborazione del Dipartimento di ingegneria automatica e gestionale della Sapienza di RomaDiag, diretto dalla professoressa Tiziana Catarci.

Ma perché la sostenibilità sociale tende a sfuggire?

Perché è culturalmente determinata, nella sostenibilità sociale si esprime una tensione etico-valoriale che per l’ambiente è meno marcata. Non che non vi sia un dibattito in merito, lo sappiamo, ma c’è una comunità scientifica che mostra un’efficacia, banche dati di riferimento. In quella sociale è più difficile arrivare allo stesso livello di standardizzazione. Ma, attenzione, non solo è più difficile, per certi versi è controproducente.

Perché?

Dal punto di antropologico, la sostenibilità sociale ha a che vedere con la capacità di innovare, di dare risposte efficaci alle comunità umane in determinati territori rispetto al profilo specifico delle persone che le abitano. Paradossalmente, mirare all’obiettivo che una comunità si allinei a delle soglie standard e uguali per tutti significa negare la sostenibilità sociale.

Bisogna personalizzare?

Se vogliamo che tutti facciano le stesse cose associandole a determinati valori, che hanno senso in alcune culture e non in altre, stiamo di fatto negando il cuore della sostenibilità sociale, che è quella di saper dare risposte appropriate e personalizzate ai diversi gruppi umani.

Come avete attuato questa prospettiva alla vostra sfida di far uscire dal cono d’ombra la sostenibilità sociale nelle aziende?

Il punto di partenza è stata la collaborazione con il dipartimento Diag della Sapienza, che ha condotto una revisione della letteratura cercando quanto già esiste in materia di misurazione di sostenibilità sociale delle organizzazioni.

Qual è il dato principale che è emerso?

L’importanza di darsi obiettivi comuni. Con questi risultati, assieme all’altro protagonista del pool, Eikon, società Benefit specializzata nella misurazione dei media e delle percezioni sociali abbiamo messo a punto il questionario.

Come è strutturato?

Abbiamo tradotto i 16 punti del manifesto in domande per le aziende, suddividendole in cinque sezioni, ciascuna collegata agli obiettivi dell’Agenda 2030, in modo da ottenere un framework comune per parlarsi e capirsi su questi aspetti, cercando al tempo stesso di dare delle definizioni chiare con cui confrontarsi.

Quali sono le sezioni?

Salute e benessere, parità di genere, lavoro dignitoso e crescita economica, riduzione delle diseguaglianze, consumo e produzione responsabile. Così abbiamo inserito anche una parte ambientale, vista però dalla prospettiva del contributo che le singole persone possono dare.

A cosa conduce la compilazione delle domande per l’azienda?

In primo luogo, a un coinvolgimento reale delle persone e dell’azienda. Il rischio infatti è che le misurazioni diventino strumenti burocratici senza trasformarsi in mobilitazione e coinvolgimento concreto verso quegli obiettivi. Ma non siamo un ente certificatore, intendiamo valorizzare quello che l’azienda dice di sé.  

Ad esempio?

Nelle domande si parla, ad esempio, di cultura bioetica, diversità e inclusione e work-life balance, ma anche di educazione sessuo-affettiva, body positivity e intersezionalità, con lo scopo di stimolare a riflettere su dimensioni magari non ancora entrate nell’orizzonte aziendale: l’articolazione in più punti invita a non soffermarsi solo su uno. Quello che proponiamo è un viaggio di consapevolezza e coinvolgimento.

Sono domande di tipo quantitavivo?

Alcune sì, ad esempio quelle sul numero di donne dirigenti presenti in azienda, la retribuzione annua lorda delle donne nella stessa posizione degli uomini e così via. Sono dati oggettivi che consentono di assegnare dei punteggi.

Ci sono anche domande aperte?

Alla fine di ogni sezione chiediamo di raccontare i progetti che più coinvolgono ed entusiasmano, per valorizzare la capacità dell’azienda di compiere scelte originali. Ad esempio, un’azione di ascolto, la presenza di uno psicologo, o l’introduzione della settimana di quattro giorni come elemento di benessere per l’organizzazione.

È sempre personalizzazione versus standardizzazione?

È così. Ci interessano le risposte personali e innovative. È chiaro che alcuni aspetti sono ancorati a situazioni oggettive: se ci sono diritti non rispettati, ogni discorso cade. Ma il punto di crescita è accogliere gli sforzi creativi e organizzativi.

Come si calcola il risultato?

Le risposte vanno a corrispondere a un profilo in un range che va da uno a cento. Il primo livello, da uno a 30 è il pioneer: indica l’aver cominciato un percorso di consapevolezza e a interrogarsi. Il secondo, da 31 a 60 è il climber, che indica chi ha già cominciato la salita con qualche scelta mirata a innovare. Dal 61 all’80 è il terreno del game changer, di chi sta già cambiando le regole del gioco in modo significativo, mentre il transformer, tra 80 e 100, ha già trasformato tantissimo la propria organizzazione.

Per dirla in sintesi?

Il sociale non può essere congelato. Vive di dinamismo, di ibrido e di cambiamento. Le leve della sostenibilità sociale vanno mosse in questa direzione.

Quali nomi si sono messi in gioco?

Le prime tre aziende che hanno adottato l’S-assessment sono state Lundbeck, Havas Life e Tim.

Foto, in apertura: il rapper Rancore, cover del Manifesto di Rewriters


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