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Salute e diritti

La rinuncia alle cure? La racconta il calo dei ricavi da ticket

I dati diffusi dall'Agenzia per i servizi sanitari regionali mostrano che l'anno scorso sono entrati 350 milioni di euro in meno di ticket rispetto al 2018, segnale della migrazione verso la sanità privata e della rinuncia alle cure

di Nicla Panciera

Pagamento del ticket all'ospedale Umberto I FOTO DI © FABIO MAZZARELLA/SINTESI

Meno 350 milioni di euro: questa è la differenza tra i ricavi da ticket nel 2022, che ammontano a circa 1 miliardo di euro, e quelli del 2018, che erano poco più di 1 miliardo 350 milioni, una contrazione del 22%. Una cifra in aumento rispetto al 2021 e al 2020, ma ancora inferiore ai livelli precedenti la pandemia.

Lo mostrano i dati pubblicati dall’agenzia per i servizi sanitari regionali Agenas (qui il rapporto), sull’andamento della compartecipazione alla spesa per prestazioni sanitarie da parte dei cittadini tra il 2018 e il 2022, passata rispettivamente da 23 euro a 18 euro pro capite, ma con enormi differenze regionali come di vede dall’infografica. Il 96% degli importi derivano dalla compartecipazione alla spesa per prestazioni di specialistica ambulatoriale (nel 2022 pari a 973 milioni di euro), mentre ammonta al 3% il ticket per l’assistenza ricevuta presso i pronto soccorso (nel 2022 pari a 34 milioni).

Perché questo calo? «C’è stata, certamente, la pandemia», esordisce Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva. «Essa ha determinato delle difficoltà di accesso ai servizi sanitari e ha anche originato una ritrosia nei cittadini che perdura ancora e che noi abbiamo cercato di contrastare con la campagna Torniamo a curarci». Ma altre questioni spiegano questi dati, come la povertà e le liste d’attesa infinite che non rispettano i tempi previsti, neppure nei casi prioritari. «Il problema delle liste d’attesa perdura e continua ad aggravarsi, nonostante lo stanziamento di fondi ad hoc, tragicamente utilizzati solo in parte» spiega Mandorino. «In questa situazione, le soluzioni che si prospettano per il cittadino sono tre e ciascuna contribuisce al calo dei ricavi dei ticket: rivolgersi alla sanità privata; guardare all’intramoenia come via di accesso alla sanità pubblica (richiedo una visita a pagamento, sperando di essere poi preso in carico dallo specialista durante la sua attività nel pubblico); abbandonare le cure e rinunciare alle visite, per l’impossibilità economica a farlo, con il conseguente carico di salute a medio termine e anche economico».

Le prestazioni intramoenia sono quelle erogate a pagamento dal medico di un ospedale, al di fuori del normale orario di lavoro e utilizzando le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso. Dati nazionali non ce ne sono, quindi Cittadinanzattiva, tramite lo strumento della richiesta di accesso civico, sta monitorando le dimensioni del fenomeno. I dati della Campania (Nicola Varcasia per Vita li ha raccontati qui), arrivati presto e in modo completo, mostrano una situazione drammatica, di cui si sta discutendo da giorni: «Il numero di prestazioni erogate nel canale pubblico è inferiore, per tutte le specialità mediche, a quelle erogate in intramoenia, in tutte le aziende ospedaliere». La risposta istituzionale è già arrivata con la stretta della Regione tramite divieto di prestazioni intramoenia quando superano quelle erogate dal Sistema sanitario nazionale.

Andrebbe ricordato che il ticket sanitario è uno strumento consolidato di controllo della domanda sanitaria in molti paesi dell’area Ocse e di responsabilizzazione dei cittadini sui costi dei serviti erogati; è la quota di compartecipazione diretta dei cittadini alla spesa pubblica per l’assistenza sanitaria fornita dallo Stato e dalla Regione ed è previsto per le prestazioni di specialistica ambulatoriale, l’assistenza farmaceutica, alcune prestazioni di Pronto Soccorso, le cure termali.


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