Scuola
Caro Galli della Loggia, l’inclusione è un processo (ed è irreversibile)
Ernesto Galli della Loggia domenica si è preso una pagina del "Corriere della Sera" per chiarire la sua posizione sull'inclusione scolastica. Inizia scusandosi e dichiarando che non è un fautore dell'esclusione, ma poi ribadisce le sue osservazioni. Qui la risposta della responsabile scuola dell'Associazione Bambini Cerebrolesi
Le giuste ed opportune reazioni di sdegno davanti agli articoli di Ernesto Galli della Loggia hanno dato a mio giudizio fin troppa visibilità alle sue esternazioni, che dimostrano pura ignoranza (nel senso di “chi ignora”) in materia di scuola e inclusione scolastica. Una cosa di cui, francamente, non aveva bisogno nessuno di noi che la scuola la respira ogni giorno, impegnati per la tutela dei diritti e per migliorare concretamente la vita scolastica dei nostri alunni con disabilità. Ero combattuta anch’io sul rispondere o meno al secondo articolo, ma alla fine ha prevalso la necessità di correggere alcune informazioni di base, dal momento che ancora molti – e ci può stare – ignorano cosa sia l’inclusione scolastica.
Prima di tutto l’inclusione è un processo, per cui è sempre in divenire, come pure la stessa formazione (intesa come dare e prendere forma). Nasce dall’incontro, dalla relazione, che “costringe” al cambiamento, dunque alla riorganizzazione di se stessi nel momento in cui accogliamo l’altro. Per esempio nel sistema scolastico tutto è chiamato continuamente a dare delle risposte a nuovi bisogni e dunque a trovare e sperimentare nuove soluzioni. Sperimentare, perché ogni percorso ed ogni processo inclusivo presuppone e sottende la personalizzazione: non ci sono confezioni già pronte da applicare a tutti ma ogni azione, essendo una risposta attiva, va modellata su quella particolare persona che vive quella particolare situazione. Il percorso inclusivo, dunque, va inteso come un cammino continuo (mai finito e mai chiuso) in cui si affrontano continue ri-organizzazioni e costruzioni, che poi faranno sì che quella persona (con disabilità o con bisogni educativi speciali) possa essere pienamente se stessa: cioè possa raggiungere quella forma che le è propria, possa essere quell’individuo che è, unico e irripetibile. Non è forse un principio della pedagogia e della nostra scuola quello di “salvaguardare” le diversità, le unicità e le particolarità degli individui?
La scuola, in quanto agenzia formativa più vicina alla famiglia, è (dovrebbe essere) il primo naturale e vero alleato della famiglia per la costruzione di percorsi inclusivi per i propri figli, insieme a tutti gli operatori coinvolti: insegnanti, educatori e professionisti in genere che diventano coautori corresponsabili di questi processi inclusivi personalizzati e co-progettati. È nella scuola che si sperimenta e si costruisce l’inclusione e il cambiamento del sistema. Sulla scia della pedagogia della Montessori, che utilizzò le metodologie educative “speciali” proponendole quali basi della pedagogia scientifica indirizzata a tutti gli allievi, oggi sentiamo la necessità di far coesistere nella realtà scolastica i bisogni educativi di tutti e la specificità di ognuno. I nostri figli ci hanno insegnato come loro stessi siano una risorsa per tutta la scuola in questo senso: grazie a loro la didattica diventa speciale, si ri-organizza, si costruisce sulla base dei bisogni e attiva nuove soluzioni, che sono utili anche ad altri alunni che non hanno alcuna disabilità. Realizzare i piani personalizzati significa anche essere costretti a lavorare insieme, tutti i soggetti coinvolti, non solo la scuola ma gli Enti locali, i servizi Sanitari, gli operatori e i servizi dei territori, le Università, le organizzazioni dei diretti interessati.
Il processo in atto in Italia, dopo 30 anni di esperienza legislativa e pratica di inclusione nelle nostre scuole, propone un approccio bio-psico-sociale (ICF) che si traduce operativamente nello strumento del Pei rinnovato e finalmente unico per tutte le scuole del Paese: dal Nord al Sud, dalle periferie alle grandi città, per tutti gli ordini e gradi di scuola (dall’infanzia alle secondarie superiori). Il focus, dunque, non è solo sul soggetto/studente, ma è necessario leggere il suo contesto di vita: si parla già infatti di ambiente di apprendimento inclusivo, che in questa ottica suggerisce immediatamente il coinvolgimento di tutti. “Quello che è necessario per qualcuno può diventare utile per tutti” dice l’Universal design for learning: che cosa vuol dire? È la reale possibilità di pensare, progettare, realizzare ed utilizzare prodotti, strutture, ambienti, spazi, mezzi e servizi fruibili da tutti, indipendentemente dalla loro età, capacità personale e/o condizione di vita, cultura, lingua. Non è sempre facile ma esistono delle eccellenze, delle buone prassi, che ci narrano di un’inclusione possibile utilizzando concretamente proprio questa metodologia. Fa sempre “più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, no?
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Il lavoro comunitario non ha un destinatario prefissato e non ha lo scopo di risolvere un problema a qualcuno, bensì di eliminare le possibili barriere “prima” che si manifestino come tali, indipendentemente dall’individuo specifico che abita quel contesto; l’inclusione riguarda tutti. In questi ultimi anni l’evoluzione dei concetti di disabilità, normalità, inclusione educativa ed i continui progressi della tecnologia hanno trasformato il nostro modo di vivere e di pensare la diversità. La gestione efficace delle differenze e dei diversi livelli di competenza è il cuore della questione didattica, poiché mira a valorizzare ogni diversità e a rendere il sapere accessibile a tutti gli alunni presenti in classe, con BES con disabilità e non. C’è una scuola che lavora già in questa direzione e ci sono tanti professionisti (bersagliati e offesi dalle considerazioni dei così detti “intellettuali” che non entrano in un’aula scolastica da 40-50 anni ma che si ritengono “esperti” di scuola e inclusione scolastica) che coltivano quotidianamente la corresponsabilità, la partecipazione, l’appartenenza.
Investiamo nel nostro presente, quindi, ossia in una scuola che sappia prendersi cura di ciascuno. Non accontentiamoci, non abituiamoci all’indifferenza che spesso ancora investe gli alunni e le alunne con maggiori difficoltà, perché ci riguarda tutti. Non rassegniamoci ad una scuola che seleziona “il merito” trascurando le unicità, tradizionalmente preoccupata di “riempire” in maniera nozionistica le teste dei nostri figli. Abbiamo bisogno di una urgente transizione sociale, finalmente inclusiva nel senso più essenziale del termine. Occorre proseguire con una riforma sostanziale dell’attuale sistema di welfare, oggi basato principalmente sul sistema di protezione e su un sistema per cui “altri” decidono sulle vite delle persone con disabilità e sui loro destini, verso un nuovo modello che sia realmente calibrato sul riconoscimento dei diritti umani, civili e sociali. Se non ora quando?
*Francesca Palmas, pedagogista, è responsabile Scuola di ABC Italia Associazione Bambini Cerebrolesi. Foto di Cinthya Liang da Pixabay
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