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Disabilità

Caro Vannacci, con le classi differenziate ci perdono tutti

La diversità, a scuola, è una ricchezza perché insegna l'empatia e l'ascolto. «Se dobbiamo formare manager tutti testa e niente anima, facciamo pure le classi differenziate. Ma se vogliamo formare delle persone, allora, oltre al sapere nozionistico, è fondamentale anche l’esperienza della diversità», dice la maestra Maria Antonietta Terraneo

di Veronica Rossi

Dei bambini seduti a terra in una classe molto decorata, con una macchinina di carta che pende dal soffitto, l'insegnante è in fondo, circondata dagli alunni

Avere delle classi differenziali, come ha proposto il generale Roberto Vannacci, candidato alle europee con la Lega, causerebbe un grave danno ai bambini e ai ragazzi che frequentano le scuole italiane. E non solo a coloro che sono in una condizione di disabilità. La diversità è una ricchezza, che va coltivata e che aiuta a formare i cittadini del domani. Maria Antonietta Terraneo, docente della scuola primaria e responsabile dell’inclusione all’istituto comprensivo Don Milani di Mariano Comense, in provincia di Como, ne è convinta e lavora proprio per offrire una didattica personalizzata, attenta ai bisogni di ciascuno e valore aggiunto per tutti. La sua scuola collabora con Fondazione Sacra Famiglia.

Qual è la sua esperienza con la diversità all’interno della classe?

Sono un’insegnante della scuola primaria da 27 anni, che prima ha lavorato in un Cfp (Centro formativo professionale, ndr) Enaip della Regione Lombardia e prima ancora in un Cse (Centro socio educativo) per persone disabili. Quello che sto dicendo non vuole essere il racconto di chi cerca di “vendere” qualcosa che non ha vissuto sulla propria pelle, ma la testimonianza di ciò che vedo nel mio lavoro quotidiano. Nella mia esperienza, avere una classe in cui ci sono anche delle fragilità è molto positivo, soprattutto per i bambini e i ragazzi senza disabilità. La presenza di un ragazzino disabile è una ricchezza, nella misura in cui obbliga noi insegnanti a ripesare i percorsi educativi e didattici, in modo da includere le diversità, partendo da un assunto di base: tutti siamo diversi e abbiamo bisogni diversi, ma siamo uguali nei diritti.

Tutti siamo diversi e abbiamo bisogni diversi, ma siamo uguali nei diritti

In che modo si può fare vera inclusione a scuola?

Non abbiamo bisogno di una didattica standardizzata, che parte dal pensiero di arrivare a un’eccellenza calando a pioggia su tutti le stesse proposte. Abbiamo delle classi variegate, con bambini e ragazzi con bisogni diversi e il nostro lavoro, come insegnanti, è stare attenti a questi bisogni, rispondendo in modo appropriato e personalizzato. In questo modo io ho sempre avuto esperienze positive, in classi in cui erano presenti alunni con differenti tipi di disabilità. Alla fine siamo sempre riusciti, grazie a un lavoro di team tra colleghi, ad avere buoni risultati. Quello che abbiamo potuto vedere è che si creavano sempre delle relazioni interessanti all’interno del gruppo-classe: chi aveva competenze maggiori dal punto di vista cognitivo aiutava chi aveva delle competenze un po’ più zoppicanti, chi aveva competenze relazionali importanti dava una mano a chi era più chiuso, e così via. La diversità è sempre presente e l’inclusione non va messa in atto solo quando c’è un alunno disabile.

E queste relazioni di aiuto sono arricchenti anche per chi ha maggiori competenze?

Certo. Perché scatta quella cosa che si chiama “empatia” e i ragazzi diventano più capaci di sentire, vivere e vedere i bisogni degli altri. Li ho visti diventare meno ripiegati su sé stessi e più aperti ai bisogni dell’altro. È chiaro che il lavoro maggiore lo fanno gli adulti, gli insegnanti, che devono calare la didattica sulle esigenze della classe. Quando io programmo per la mia classe al cui interno c’è uno studente autistico, io inizio a farlo proprio a partire dalla sua presenza e dai suoi bisogni. Si deve avere una grossa disponibilità a ripensare e a reinventare i percorsi che siamo abituati a fare. Noi lavoriamo molto a coppie e a gruppi eterogenei, dove ognuno ha il suo compito. I bambini non hanno le sovrastrutture degli adulti: se in classe c’è un ragazzino con la sindrome di Down, per esempio, che talvolta può essere un po’ in difficoltà con le autonomie di base, i compagni sono i primi ad avvicinarsi per aiutarlo ad allacciarsi le scarpe, a vestirsi o a riordinare i pennarelli. È qualcosa che avviene in maniera molto naturale, ma che, alla fine del quinquennio, è una grande ricchezza.

Se dobbiamo formare dei manager tutti testa e niente anima, facciamo pure le classi differenziate. Ma se vogliamo formare dei cittadini e delle persone, allora, oltre al sapere nozionistico, è fondamentale anche l’esperienza della diversità

In che senso?

I bambini diventano capaci di ascoltare gli altri, di vedere i loro bisogni, mettendosi nei loro panni. Poi il fatto di ascoltare un argomento spiegato in modo che arrivi anche a chi è più in difficoltà è un valore aggiunto per tutti, perché lascia la possibilità di imparare in modo diverso e questo è fondamentale: basti pensare che in una delle nostre classi, su 20 alunni, ci sono almeno dieci stili cognitivi diversi su cui lavorare. Se noi dobbiamo formare dei manager, tutti testa e niente anima, facciamo pure le classi differenziali: ma se vogliamo formare dei cittadini e delle persone, allora, oltre al sapere nozionistico, è fondamentale anche l’esperienza della diversità, che tira fuori – in una parola sola – l’umanità dei nostri ragazzi.

Foto in apertura da Unsplash


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