Persone
Gli 80 anni di don Ciotti: «Per la pace bisogna sporcarsi le mani, non basta denunciare le brutture della guerra»
Compie 80 anni don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e del Gruppo Abele. Nella sua storia al fianco delle fragilità, dice, «sono state le persone che ho incontrato a indicarmi la direzione. Non si tratta di me, ma di un impegno plurale, condiviso». Pace e clima le sfide globali per gli anni che verranno. E al mondo del sociale raccomanda: «Non sia prigioniero dei bandi, ma resti un soggetto politico, un osservatore critico della realtà». Un desiderio? «Che la solidarietà diventi inutile, sostituita dalla giustizia»

Quando è nato, 80 anni fa, il mondo usciva dalla guerra e assaporava la pace (don Pio Luigi Ciotti è nato a Pieve di Cadore il 10 settembre 1945): oggi, mentre si accinge a spegnere le sue 80 candeline, «il ritorno a retoriche militariste e minacce incrociate fra le grandi potenze è per me una delle maggiori angosce». Non vuole parlare di sé, don Luigi Ciotti, tanto che il compleanno lo festeggerà in un monastero di clausura a Torino. «Mi sembra un buon modo per “dribblare” affettuosamente la ricorrenza. Una giornata di raccoglimento e preghiera, per dire grazie al Signore di questo cammino già lungo e chiedergli la forza di affrontare con fiducia gli anni che, se lui vorrà, verranno». Ed è di questo, solo di questo, che è disposto a parlare: del «cammino» percorso in 80 anni e soprattutto di quello che lo attende, negli anni che avrà davanti.
Don Luigi, possiamo dire che lei è nato insieme alla pace nel mondo. Oggi quella pace torna a essere fragile: da dove cominciare per ricostruirla?
Dal pensiero: dobbiamo tornare a pensarla possibile, superando le retoriche belliciste che vedono nella deterrenza armata l’unica strada per assicurare stabilità al mondo. Un equilibrio fondato sui rapporti di forza non si può però chiamare “pace”, perché la pace vera chiede giustizia nel rapporto fra i popoli e anche giustizia sociale. Come ha detto di recente Papa Leone XIV: «È triste assistere oggi in tanti contesti all’imporsi della legge del più forte, vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza».
I pacifisti veri non sono quelli che si limitano a denunciare le brutture della guerra. Sono persone che si sporcano le mani per la pace, per la giustizia, per la verità
Dopo il pensiero viene il linguaggio, secondo il monito di Papa Francesco: disarmiamo le parole per disarmare i comportamenti. Vediamo purtroppo i leader della terra giocare a chi “la spara più grossa”: parole forti per intimidire e condizionare. Invece abbiamo bisogno di parole accurate, ragionevoli, che aiutino la comprensione reciproca. Iniziamo dalle nostre famiglie, dai nostri mondi.
Infine vengono le pratiche. La pace si costruisce con le “armi” della pace: diplomazia e aiuti umanitari. Ma si costruisce, ancora prima, con un impegno collettivo e capillare, che già esiste eppure viene sottovalutato. I pacifisti veri non sono quelli che si limitano a denunciare le brutture della guerra per “pulirsi la coscienza”. Sono invece persone che si sporcano le mani per la pace, per la giustizia, per la verità. Penso a chi fa volontariato in mezzo agli ultimi della terra, ai medici nelle zone di guerra ma anche nella “trincea” della sanità pubblica, sempre più sguarnita di risorse. Penso ai giornalisti che rischiano la pelle per documentare i crimini di guerra o mafiosi, penso a chi con amore restituisce alla società i beni sottratti ai boss. Penso agli insegnanti che oltre a insegnare educano, agli attivisti ambientali che in ogni fazzoletto di terra per cui si mobilitano difendono il futuro di tutti noi, a quelle navi che salpano nel Mediterraneo per salvare le vite dei migranti, o portare aiuto e speranza alla popolazione stremata di Gaza.
Guardando indietro, in quanti “capitoli” dividerebbe la storia del suo impegno?
Non si tratta del “mio” impegno, ma di un impegno sempre condiviso, plurale. Ed è difficile dividerlo in capitoli, perché c’è stata una continuità dei problemi e anche delle risposte che abbiamo cercato di offrire, sempre fondate sul riconoscimento, sull’accogliere senza giudicare né “selezionare” chi aveva bisogno di aiuto. Ho iniziato a Torino col Gruppo Abele, in mezzo ai figli dell’immigrazione dal Meridione e da altre zone povere d’Italia. Io stesso lo ero, essendo arrivato bambino dal Cadore insieme alla mia famiglia. Col tempo i volti sono cambiati, è cambiata l’origine delle persone, ma le storie di miseria, di speranza, di ricerca di una dignità attraverso il lavoro, di fatica a farsi accettare, sono rimaste le stesse.
Le risposte che abbiamo cercato di offrire sono state sempre fondate sul riconoscimento, sull’accogliere senza giudicare né “selezionare” chi aveva bisogno di aiuto
Anzi, i migranti di oggi affrontano viaggi ancora più difficili, e uno stigma ancora più profondo. Abbiamo accompagnato tante ragazze costrette con l’inganno a prostituirsi, proprio come le giovani donne che oggi chiedono protezione a una preziosa linea telefonica gestita insieme ad altre realtà a livello nazionale. Abbiamo accolto i primi malati di Aids, quando tutti ne avevano paura, e continuiamo a impegnarci per la prevenzione di una malattia della quale ormai non si parla quasi più, ma che continua sottotraccia a condizionare la vita di tanti.
Con Libera abbiamo accompagnato la nascita di una legge sull’uso sociale del beni confiscati, che oggi ci copiano in Europa e nel mondo, per la bellezza dei percorsi a cui ha dato origine. E poi ci siamo messi al fianco dei familiari delle vittime delle mafie, testimoni preziosi di una sofferenza che diventa impegno per il cambiamento. Oggi ascoltiamo anche altre voci che testimoniano la possibilità di cambiare la società, a partire da un cambiamento personale: sono le voci delle donne e dei ragazzi che scelgono di lasciare le famiglie mafiose di origine, avendo capito la trappola mortale che rappresentano, per ricostruirsi con fatica e sempre a grande rischio della vita un’esistenza diversa, onesta e libera, altrove.

In questo percorso, quali sono le figure che hanno segnato, ispirato, guidato e accompagnato i suoi passi?
Può sembrare retorico, ma a darmi la direzione sono sempre state le persone che ho incontrato sulla strada: i poveri, i maltrattati, i carcerati, gli emigrati, gli sfruttati, le persone dipendenti dalla droghe e quelle vittime dei crimini mafiosi. Le loro ferite sono state la mappa per orientarmi di fronte ai dubbi e nelle fatiche. Prima parlavamo di dare risposte ai bisogni di chi soffre: la verità è che la sofferenza degli altri, se la sappiamo ascoltare, offre risposta al nostro bisogno di senso, al nostro bisogno di capire come renderci utili in questa vita.
A darmi la direzione sono sempre state le persone che ho incontrato sulla strada
Se proprio devo citare un maestro, il nome che per primo mi viene incontro è quello di padre Michele Pellegrino, il vescovo che mi consacrò sacerdote e che non a caso, avendo letto nel profondo della mia anima e della mia fede inquieta, mi affidò come parrocchia proprio la strada, come luogo dove andare non a insegnare ma a imparare.
Esprimere desideri non serve, ma sognare sì. Quali sono i suoi sogni per i prossimi 80 anni?
Il sogno, lo dico da sempre, è quello di veder scomparire gli strumenti della solidarietà perché ormai inutili, sostituiti da meccanismi di vera giustizia. Il sogno è vedere i tanti percorsi avviati tradotti in una prassi politica e sociale condivisa, capace di prevenire le sofferenze e tutelare i diritti. Questo sogno rappresenta l’orizzonte necessario di ogni intervento solidale che non sia pensato per affrontare in modo temporaneo un problema, ma per trasformare in maniera durevole la realtà. Trasformazioni che in parte ci sono state, però richiedono ancora tanto tanto impegno per consolidarsi, mentre è proprio di questi giorni l’allarme lanciato dal Forum del Terzo Settore, su un taglio di 34 milioni di euro al fondo triennale per le attività specifiche degli enti sociali.
Ringrazio padre Michele Pellegrino, il vescovo che mi consacrò sacerdote: avendo letto nel profondo della mia anima e della mia fede inquieta, mi affidò come parrocchia la strada
Quali sfide vede all’orizzonte?
A livello globale, il ritorno a retoriche militariste e minacce incrociate fra le grandi potenze, insieme al grande tema ambientale, sono i “fronti” che creano maggiore angoscia. E chiederebbero una riscossa delle coscienze in tutto il mondo. Quella riscossa spesso invocata da Papa Francesco, che oggi vediamo almeno in parte manifestarsi nello sdegno collettivo per il genocidio a Gaza.
A livello locale, lottiamo per un cambiamento delle leggi sull’immigrazione, per prevenire le tragedie ai confini, combattere lo sfruttamento dei lavoratori irregolari, superare la stortura giuridica dei Cpr, consentire ai bambini e ragazzi nati qui di ottenere più facilmente la cittadinanza. C’è molta attenzione alle nuove espressioni di disagio giovanile, come il ritiro sociale. E sul piano del contrasto alle mafie, la richiesta di una norma che favorisca l’allontanamento volontario di donne e minori dai contesti mafiosi di origine: dentro la Commissione Antimafia se ne discute da tempo, esiste una proposta che ha ottenuto a parole un consenso trasversale… ma in questo come in tutto non bastano le parole; servono concretezza, tempismo e coraggio.
Il sogno è quello di veder scomparire gli strumenti della solidarietà perché ormai inutili, sostituiti da meccanismi di vera giustizia
I giovani, da sempre, destano preoccupazione degli adulti. Oggi però questo sembra ancora più vero, soprattutto se parliamo di dipendenze. Qualcuno dice che stiamo tornando agli anni ‘80: cosa dobbiamo fare per evitarlo?
Non stiamo tornando agli anni ‘80: la situazione è molto diversa da allora, sia per l’altissimo numero di nuove sostanze psicoattive in circolazione, sia per le modalità del consumo. Però si può dire che siamo “tornati indietro” rispetto al livello di consapevolezza che avevamo raggiunto sul problema. La prevenzione è ridotta quasi allo zero e spesso segue canoni superati, linguaggi non più al passo con la sensibilità di oggi. Le risorse per i servizi teraputici sono ridotte all’osso e il personale di quei servizi non sempre riesce ad aggiornarsi, a sperimentare, a fare ricerca.
Noi al Gruppo Abele ci stiamo provando, con un centro che accoglie giovani sotto i trent’anni dipendenti dal crack: una formula residenziale più “leggera” e un investimento fortissimo sulle relazioni e sul ricostruire quelle passioni che la sostanza di fatto spegne. Senza pregiudizi sulle terapie farmacologiche, che però hanno tanti limiti.
In una società al galoppo, l’incontro intergenerazionale rischia di trasformarsi in un rodeo, dove il giovane scalcia per trovare il suo spazio e l’adulto non riesce ad accarezzarlo, perché terrorizzato di perdere la presa e vederlo fuggire lontano
È vero come tu dici che gli adulti si preoccupano dei giovani, ma a volte se ne occupano invece poco, o nel modo sbagliato. Non è cattiveria, semmai impreparazione; è mancare quell’incontro generazionale che, in una società al galoppo, rischia di trasformarsi in un rodeo, dove il giovane scalcia per trovare il suo spazio e l’adulto non riesce ad accarezzarlo, perché terrorizzato di perdere la presa e vederlo fuggire lontano… Invece le carezze servono, come serve anche la fermezza, il mostrarsi solidi, affidabili, capaci di ascolto.
Cosa ci chiedono i giovani? E cosa ci insegnano?
Ci chiedono di essere compresi nei loro percorsi inediti, anziché indirizzati, magari benevolmente, sui passi già percorsi da noi adulti… inclusi quelli sbagliati.
Io dai ragazzi ho imparato la purezza dell’ideale e la delusione nel vederlo “sporcato” da convenienze e compromessi. Loro sono intransigenti, nel bene e nel male. E ci insegnano a restare fedeli all’essenza dell’impegno, al suo scopo originario. Sono anche creativi, pieni di spunti per attirare l’attenzione del pubblico su ciò che sta loro a cuore, per rendere le proteste e le rivendicazioni non soltanto giuste ma anche belle. E sono meno litigiosi di noi adulti, che a volte mettiamo la vanità o le antipatie personali davanti all’obiettivo comune.

Dai “grandi” si aspettano soprattutto presenza e coerenza: esserci, esserci sempre nei momenti di fatica e di crisi; tradurre il nostro dire in un fare che li coinvolga e li faccia sentire protagonisti.
Lei ha fondato gruppi, associazioni, movimenti. Ora si parla di Terzo settore, oggi più “accreditato” di quanto non fosse 80 anni fa. Cosa consiglia a questo pezzo di mondo, perché possa svolgere il suo ruolo nel sostenere le fragilità e combattere le ingiustizie?
Rispetto a 80 anni fa, e anche a 60 anni fa, quando ho iniziato il mio impegno sulla strada col Gruppo Abele, è vero che l’associazionismo è più “accreditato”, cioè riconosciuto dentro al “sistema”. Ma non sono sicuro che sia un bene. Perché c’è il rischio, molto concreto, che del sistema diventi un elemento funzionale, rinunciando al suo ruolo di osservatore critico. L’ansia di “arrivare da tutte le parti”, a coprire col nostro intervento i bisogni lasciati scoperti dal pubblico, ci ha fatto moltiplicare iniziative e progetti. Col risultato, ovviamente positivo, di dare una mano a tantissime persone e animare territori difficili, altrimenti preda di dinamiche criminali. Ma anche col risvolto negativo di fare troppo spesso i “delegati” di un attore pubblico distratto o inadempiente.
Il “sociale” è oggi prigioniero della logica perversa dei “bandi”, dei “bonus” e dei finanziamenti “una tantum”, che sovraccaricano enormemente la sua macchina amministrativa e burocratizzano anche il lavoro di operatori, operatrici, volontari e volontarie: i primi, spesso penalizzati a livello sia economico che di riconoscimento professionale. Il risultato è una presenza sempre più fiacca e rassegnata sul piano politico e culturale. Un ruolo passivo, obbediente, subalterno al potere. Ma se perde la sua anima politica il sociale perde di vista il suo obiettivo più alto, che è quello di denunciare le ingiustizie ed esigere i diritti fondamentali per tutti. Insomma il caro, vecchio desiderio di cambiare il mondo…
Un desiderio che don Ciotti, a 80 anni, sente ancora vivo e vigoroso.
Tutte le immagini sono state fornite da gruppo Abele
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