Governo

E adesso schediamo le famiglie affidatarie?

I ministri Roccella e Nordio hanno presentato un disegno di legge per la tutela dei minori in affidamento, come se l’affido familiare non fosse uno strumento di tutela ma un'esperienza da cui proteggere i bambini. Un ribaltamento di prospettiva coerente con la filosofia dell'Allontanamento Zero ma in assoluto contrasto con la centralità del minore. Nascono un nuovo Osservatorio e due registri. Mentre si torna a usare la parola "istituti" proprio mentre si dichiara di voler contrastare l'istituzionalizzazione impropria

di Sara De Carli

Giorgia Meloni

Già il titolo palesa l’approccio: «Disposizioni in materia di tutela dei minori in affidamento». Come se l’affidamento non fosse strumento di tutela dei minori, ma esperienza da cui tutelarli. Come se gli affidatari dovessero essere guardati con sospetto e controllati a vista: e infatti li schediamo in un registro. Non a caso parla di affido il titolo del disegno di legge che la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella e il ministro della Giustizia Carlo Nordio porteranno in Consiglio dei Ministri nel pomeriggio di martedì 26 marzo, ma che in realtà poi fa un mischione di tutto, accoglienza in comunità residenziali e affido familiare, senza riconoscerne le specificità e anzi pure con una buona dose di approssimazione lessicale e concettuale.

Il ritorno (sospetto) della parola istituti

Un esempio? Si parla undici volte in tre articoli di “istituti di assistenza pubblici e privati” per i minori fuori famiglia: undici volte, decisamente non è una svista. Eppure è un errore clamoroso, soprattutto perché fatto da due ministri: quella dicitura risale a più di vent’anni fa ma gli istituti di assistenza pubblici e privati per i minori fuori famiglia non esistono più da oltre vent’anni, li abbiamo chiusi con la legge 149 del 2001, con un processo che è terminato sulla carta nel 2006 e nelle realtà un paio di anni dopo. Esiste ancora qualche realtà che si configura come istituzionalizzante? Chiudiamola, chi ha il potere per farlo c’è già: sono le regioni.

A meno che l’obiettivo di tutto questo parlare di istituti e istituzionalizzazione sia un altro. Gettare altro sospetto sul mondo dell’accoglienza, per sostenere che le comunità odierne non sono poi così diverse dagli istituti di un tempo? O addirittura, forse, tornare indietro: riportare la parola istituto come qualcosa di familiare e sdoganare l’ipotesi dell’istituto come soluzione più comoda per i tanti minori la cui accoglienza ci pone oggi più problemi, per esempio i minori stranieri non accompagnati o quelli con problematiche anche di tipo sanitario, psichiatrico, di dipendenze?

Il diritto a crescere in una famiglia o a crescere nella sua famiglia

Quel che è certo è Giorgia Meloni è donna coerente e in vista delle elezioni – come già è accaduto d’altronde nel 2019/2020 con il caso Bibbiano – mette in scena un nuovo attacco all’affidamento familiare. I take di agenzia infatti riprendono proprio i temi cari a Fratelli d’Italia e alla Lega, gli stessi che in Piemonte hanno portato alla legge regionale “Allontanamenti Zero”: evitare istituzionalizzazioni improprie, evitare gli affidamenti sine die, garantire la piena attuazione del principio del superiore interesse del minore e del diritto dei bambini e degli adolescenti a vivere e a crescere all’interno delle loro famiglie così come stabilisce la Convenzione sui diritti del fanciullo. Peccato che quella Convenzione, così come la legislazione italiana, parli del diritto del fanciullo a crescere in una famiglia: preferibilmente la sua, ovvio, ma qualora questa non sia in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore o peggio lo maltratti è preciso compito dello Stato garantire al minore il diritto di crescere in una famiglia che sappia prendersi cura di lui. Altrimenti non stiamo parlando del diritto del minore a crescere in una famiglia, ma del diritto degli adulti sui propri nati, della priorità del legame di sangue sempre e comunque. C’è una bella differenza.


Nelle segrete stanze

Ma andiamo al testo. Il ddl «Disposizioni in materia di tutela dei minori in affidamento» è comparso dal nulla alla fine della scorsa settimana. L’Osservatorio Infanzia e Adolescenza, presieduto dalla stessa ministra per la Famiglia Eugenia Roccella, istituto già nel 1997 insieme alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, ha al suo interno quattro gruppi di lavoro, di cui uno proprio sull’affido e uno per migliorare la raccolta dei dati che riguardano i minori, anche fuori famiglia (quello dei dati è oggettivamente un punto debole del nostro sistema, ripetutamente sollevato dal rapporto annuale del Gruppo CRC): in nessuno dei due gruppi questo schema di ddl è mai stato annunciato, presentato, discusso.

Inoltre, paradossalmente, soltanto a febbraio la Conferenza Unificata ha sancito l’intesa sulle nuove linee di indirizzo nazionali sull’accoglienza dei minori nei servizi residenziale e sull’affidamento familiare (le trovate qui e ne abbiamo parlato nella newsletter Dire, fare, baciare del 5 marzo, riservata agli abbonati di VITA e dedicata settimanalmente ai temi dell’educazione, della famiglia e dei minori). Se il Governo aveva l’idea di introdurre novità di questa portata, non si poteva discuterne nei tavoli di lavoro che hanno condotto a quelle linee guida? Peraltro sono proprio quelle linee guida che dovrebbero garantire una omogeneità di diritti e servizi per tutti i minori d’Italia e si tratta di un passaggio particolarmente necessario in vista della possibile approvazione della “autonomia differenziata”: peccato però che le linee guida precedenti (quelle sull’affido erano del 2012 e quelle sulle comunità del 2017) le singole regioni le abbiano pressoché ignorate.

La prima questione quindi è di metodo, come abbiamo già detto per altre misure: il governo Meloni è un governo che non si confronta con nessuno.

Cosa introduce il ddl: due registri e un Osservatorio

La bozza di ddl (vedremo cosa uscirà dal Consiglio dei Ministri, quella che al momento circola e su cui abbiamo fatto queste riflessioni, che potrebbero – speriamo! – essere smentite, porta nel file la data del 15 marzo) prevede l’inserimento nella legge 184/1983 di tre cose, rigorosamente senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

  1. il «registro nazionale degli istituti di assistenza pubblici e privati, delle comunità di tipo familiare e delle famiglie affidatarie», presso il Dipartimento per le politiche della famiglia, con l’indicazione provincia per provincia del numero dei minori collocati in ogni istituto di assistenza pubblico o privato ovvero in ogni comunità di tipo familiare e il numero delle famiglie, delle comunità e degli istituti che sono disponibili all’affidamento;
  2. un «registro dei minori collocati in comunità di tipo familiare o istituti di assistenza pubblici o privati o presso famiglie affidatarie», presso ogni tribunale per i minorenni e tribunale ordinario: per ciascun minore fuori famiglia andranno annotati la data e gli estremi del provvedimento, con indicazione della comunità di tipo familiare o dell’istituto di assistenza pubblico o privato o della famiglia affidataria; la data e gli estremi del provvedimento relativo al minore in collocazione protetta; l’eventuale intervento della forza pubblica con l’indicazione, anche sintetica, della motivazione; la data e gli estremi dei provvedimenti che autorizzano il minore agli incontri, anche in forma protetta, con i familiari dello stesso; la data e gli estremi dei provvedimenti che autorizzano il minore a rientrare in famiglia.
  3. un Osservatorio nazionale sugli istituti di assistenza pubblici o privati, sulle comunità di tipo familiare e sulle famiglie affidatarie, sempre istituto presso il Dipartimento per le politiche della famiglia, con il compito di monitorare eventuali anomalie e promuovere ispezioni. L’Osservatorio analizza le informazioni e i dati raccolti nel registro nazionale, effettua segnalazioni alle autorità competenti in ordine a possibili situazioni di istituzionalizzazioni improprie, «promuove lo svolgimento da parte delle stesse autorità di eventuali ispezioni o sopralluoghi presso gli istituti o le comunità affidatari» (che non si capisce bene cosa siano, ci torneremo) e predispone, entro il 30 giugno di ciascun anno una relazione sui risultati della propria attività e su eventuali proposte di rafforzamento della legislazione nazionale.

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Controllo anziché rilancio

Di «fulmine a ciel sereno» parla Valter Martini, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, che prima da solo e poi insieme alla moglie accoglie minori in affido dal dicembre 1983, sette mesi dopo l’approvazione della legge che lo ha istituito e che ha appena compiuto 40 anni (leggi qui il nostro bilancio sulla legge 184/1983): «È il primo intervento del governo sul tema dopo Bibbiano e colpisce il fatto che sia tutto centrato sulla vigilanza e il controllo. L’affido famigliare sta attraversando un momento molto difficile, le famiglie disponibili sono sempre meno ma qui non si parla in alcun modo di cosa fare per rilanciare o promuovere l’affido, è tutto rivolto a mettere sotto controllo».

Ben venga il controllo, riflette Martini, «ma anche la commissione d’inchiesta parlamentare fatta sull’onda di Bibbiano quali irregolarità ha fatto emergere? Nulla». Quanto agli strumenti introdotti, il nuovo Osservatorio «mi pare un doppione rispetto all’Osservatorio Infanzia e Adolescenza» mentre il registro «è presentato come una rivoluzione ma ovviamente le regioni e più ancora gli enti locali, che hanno competenza sugli affidi, sanno già esattamente dov’è un minore, quali sono le strutture di accoglienza sul territorio, quali sono le famiglie che stanno accogliendo un minore».

Le regioni e più ancora gli enti locali, che hanno competenza sugli affidi, sanno già esattamente dov’è un minore, quali sono le strutture di accoglienza sul territorio, quali sono le famiglie che stanno accogliendo un minore

Valter Martini, affidatario, Papa Giovanni XXIII

Suscita perplessità operative poi il fatto che il registro tenuto dai singoli Tribunali debba registrare i dettagli del provvedimento: «Spesso il Tribunale dispone l’affido per il minore, ma poi i servizi non trovano famiglie disponibili e quindi il minore viene collocato in comunità: il provvedimento dice una cosa ma la realtà è un’altra. Qui in Piemonte per esempio si provvedimenti dispongono moltissimi collocamenti in comunità mamme e bambini, almeno questo è quello che c’è scritto: ma se la mamma non accetta l’ingresso in comunità i bambini vanno in affido famigliare. La realtà vera la sanno solo i servizi che seguono tutti i progetti dei ragazzi, non i provvedimenti».

E le famiglie affidatarie, che dicono del registro? «Sono perplesse. Anche perché vengono trattate in modo molto simile a una comunità, c’è un passaggio in cui si parla di eventuali ispezioni o sopralluoghi presso gli istituti o “le comunità affidatari” che non si capisce cosa siano, basta metterci una virgola e rischiamo le ispezioni sulle famiglie… Ora non è così, sia chiaro, ma basta poco. È un accanimento esagerato su persone che fanno volontariato e aprono la propria casa e il proprio cuore a un minore da accompagnare nella crescita».

Allontanamento come protezione o allontanamento zero?

Anche per Frida Tonizzo, presidente di Anfaa, di questo ddl non si avvertiva il biosogno: «Piuttosto si intervenga sulle criticità che sta attraversando il sistema degli affidi, per il calo di disponibilità delle famiglie sull’onda del sospetto alimentato con il caso Bibbiano ma anche per l’impoverimento dei servizi. La riforma Cartabia inoltre ha stabilito che gli affidamenti decadono dopo due anni salvo che si dimostri che il rientro in famiglia comporti un grave pregiudizio per il minore: con l’80% degli affidi giudiziari e tardo riparativi, pensare che in due anni i problemi della famiglia di origine si risolvono è una mission impossible, questa cosa vuol dire non avere contezza della realtà. Siamo preoccupati tutti per gli affidamenti che durano troppo a lungo, ma non significa prevedere una automatica cessazione dell’affido, soprattutto in un momento come questo di deprivazione dei servizi, che oggi devono attivarsi per tempo nei confronti del procuratore della Repubblica per chiedere che l’affido venga prorogato. Bastava quell’aggiornamento da parte dei servizi al tribunale che già era previsto e che già avveniva».

Già, perché la verità è che i progetti di affido non sono un sottobosco che cresce nel nascondimento, sottolinea Tonizzo: «La legge dice che a seconda che siano consensuali o giudiziali il servizio sociale deve vigliare su andamento dell’affidamento e deve riferire al giudice competente (il giudice tutelare nel caso dell’affido consensuale, il tribunale per i minorenni negli altri casi) ogni evento di particolare rilevanza e fare una relazione semestrale sul programma di affido, compreso l’intervento sulla famiglia di origine. Le modalità di controllo sulle comunità e sui progetti di affido esistono già». Anche il registro delle famiglie «è improponibile, mi pare un luogo burocratico per registrare le entrate e le uscite, mettendo insieme dei dati formali che non dicono nulla dei percorsi reali dei ragazzi ma funzionano come forma di controllo sociale».

Il registro degli affidatari è improponibile, mi pare un luogo burocratico per registrare le entrate e le uscite, mettendo insieme dei dati formali che non dicono nulla dei percorsi reali dei ragazzi ma funzionano come forma di controllo sociale

Frida Tonizzo, presidente di Anfaa

Ma è «il disegno» quello che più preoccupa: «Il non considerare gli allontanamenti dei minori dalla famiglia come misura di protezione dei bambini in situazione di abuso e maltrattamento, ma come qualcosa di improprio. È l’ideologia è dell’allontanamento zero, l’illusione che tutte le situazioni dei minori con gravi difficoltà possano essere risolte all’interno della famiglia di origine. Ma questo significa spostare il fuoco dal minore e far coincidere l’interesse preminente del minore con quello della sua famiglia, dicendo che innanzitutto l’interesse del minore è quello di restare nella sua famiglia», conclude Tonizzo.

L’affido allontana o avvicina a una famiglia?

Per Anna Guerrieri, presidente del Coordinamento Care, «monitorare il fenomeno dell’affidamento familiare e quello dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia di origine è una necessità. In tal senso le associazioni familiari affidatarie del Care hanno sempre chiesto che le istituzioni si attivassero e che venissero messi a disposizione, anno dopo anno, dati esaustivi e aggiornati».

Tuttavia, dice, le associazioni familiari affidatarie aderenti al Care oggi «si interrogano con preoccupazione sulla futura attuazione» delle «novità annunciate»: «Quel che riguarda le famiglie affidatarie va costruito nell’ascolto delle famiglie affidatarie. Come Coordinamento vogliamo, quindi, fare arrivare con chiarezza ai legislatori la voce limpida delle famiglie che ogni giorno aprono le porte delle proprie case e accolgono. Lo fanno in situazioni di “emergenza”, lo fanno negli affidi “ponte”, lo fanno quando necessario e, a volte, lo fanno anche “sine die”. Il loro accogliere non certo “allontana” ma “avvicina” bambini e ragazzi alla possibilità di trovare l’ambiente familiare fondamentale per lo sviluppo armonioso e completo della propria personalità e di riuscire, quando possibile, a rientrare quanto prima nella propria famiglia di origine».

Quel che riguarda le famiglie affidatarie va costruito nell’ascolto delle famiglie affidatarie. Il loro accogliere non certo “allontana” ma “avvicina” bambini e ragazzi alla possibilità di trovare quell’ambiente familiare fondamentale per lo sviluppo armonioso e completo della propria personalità

Anna Guerrieri, presidente Coordinamento Care

La questione dei dati e del monitoraggio

«Tutta la costruzione del ddl è un altro modo per riproporre osservatori e controlli sul sistema, ma i meccanismi di controllo per le comunità sono già previsti: quelli della Procura, quelli delle Regioni sui criteri di autorizzazione e quelli degli enti locali sui progetti individuali, casomai rendiamo effettivi i controllo della Procura», commenta Liviana Marelli, responsabile infanzia del Cnca.

Sulla raccolta dei dati, in effetti, il sistema è carente e da sempre ci diciamo che i report disponibili sono datati e parziali: «Il Gruppo CRC anche nel suo 12° Rapporto ha evidenziato la discordanza e l’incompletezza dei dati raccolti rispetto ai minorenni fuori dalla propria famiglia di origine e ha chiesto al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di rendere quanto prima pienamente operativo il sistema S.In.Ba. (Sistema informativo sulla cura e la protezione dei bambini e delle loro famiglie), al fine di avere finalmente dati omogenei e comparabili tra le Regioni per l’intero territorio nazionale rispetto ai minorenni fuori famiglia d’origine. Tale sistema è fermo per questioni legate alla privacy, che si riproporrebbero evidentemente anche mettendo in piedi un nuovo sistema da zero. Troviamo il modo di fare funzionare ciò che già c’è, il sistema Sinba, l’Osservatorio per l’Infanzia e l’Adolescenza, le linee di indirizzo. Senza adombrare continuamente il pregiudizio che gli allontanamenti siano fatti male e vadano sorvegliati», dice. «E soprattutto, senza aprire spiragli per il ritorno in sordina degli istituti».

Sul tema dell’affido, ascolta il podcast originale di VITA Genitori a tempo, genitori e basta, ideato e realizzato da Giampaolo Cerri, giornalista di VITA e padre affidatario. Le prime cinque puntate le trovi qui.

Photo by Roberto Monaldo / LaPresse

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