Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Economia sociale

Enti filantropici & imprese sociali: come far incontrare due binari paralleli

«Perché oggi in Italia - come in Europa - solo l’1% del capitale di cui le imprese sociali hanno bisogno proviene dagli enti filantropici? In teoria, gli enti filantropici dispongono proprio del capitale - flessibile, paziente, solidale - di cui le imprese sociali necessitano», l'intervento segretaria generale di Assifero e vicepresidente di Philea- Philanthropy Europe Association

di Carola Carazzone

Nonostante i promettenti sviluppi della finanza etica e interessanti sperimentazioni anche in Italia, oggi il sistema finanziario risulta profondamente inadeguato alle esigenze specifiche delle imprese sociali: persiste, in tutta Europa, uno squilibrio tra la domanda e l’offerta di finanziamenti, sia in termini di accesso al debito e al capitale, che di tassi di interesse e attese di rendimento realistiche. 

Le imprese sociali che affrontano le grandi cause che ci stanno a cuore – questioni su cui gli Stati e il privato hanno fallito per decenni se non per secoli – e su quelle cause vogliono produrre un cambiamento sistemico, hanno bisogno di un tipo capitale molto specifico: flessibile, svincolato, paziente, solidale e – aggiungo e sottolineo – gentile, a sostegno di organizzazioni e non di attività, di processi e non di progetti.

Ed è proprio il tipo di capitale di cui gli enti filantropici dispongono, che li caratterizza. Eppure, il mondo della filantropia e quello delle imprese sociali sono praticamente estranei. Secondo il rapporto Accelerating Impact di Impact Europe, gli enti filantropici rappresentano in Italia – come in Europa – appena l’1% del totale dei finanziamenti veicolati alle imprese sociali. Non c’è da stupirsi dato che la gestione dei patrimoni è conservativa e il passaggio dagli investimenti tradizionali all’investing for impact da parte della filantropia è molto lento. 


Scegli la rivista
dell’innovazione sociale



Sostieni VITA e aiuta a
supportare la nostra missione


Se il potenziale della gestione patrimoniale è ancora inespresso, anche lo spending side, la capacità erogativa degli enti filantropici rimane largamente inesplorata, nonostante in Italia si muovano i primi passi. In risposta agli interpelli presentati da Assifero, infatti, la recentissima Risoluzione della Agenzia delle Entrate n. 75 del 21 dicembre 2023, ha confermato la possibilità, prevista dall’art 37, comma 1, del Cts per gli enti filantropici di utilizzare le loro risorse erogative per fare investimenti, purché senza ritorno finanziario. Questo significa che possono usare un nuovo strumento che va oltre le donazioni, sottoscrivendo ad esempio capitale sociale, prestiti e varie forme di finanziamento, tra cui, per esempio recoverable grants e forgivable loans.

Ma perché filantropia e imprenditoria sociale oggi viaggiano su binari paralleli e difficilmente si incontrano? A mio avviso ci sono alcuni falsi miti, che ci ancorano a preconcetti e barriere culturali e a strumenti obsoleti inadeguati che, se non affrontati, rischiano di mettere a repentaglio il potenziale inedito che il presente ci offre.

Falso mito numero 1: erogatori di risorse e erogatori di beni e servizi

Spesso, in una visione limitante che confonde il fine con uno degli strumenti, gli enti filantropici sono ancora percepiti esclusivamente come erogatori di risorse finanziarie (a fondo perduto) e le imprese sociali come erogatori di beni e servizi (a basso costo). 

Distinguere tra enti filantropici ed enti di erogazione così come tra erogatori di servizi e imprese sociali con approccio sistemico è fondamentale: alleviare sofferenza, tamponare emergenze, restaurare bellezza è infatti un mestiere molto diverso dall’affrontare le cause profonde e contribuire ad eliminare le diseguaglianze, promuovere cambiamento sociale, lavorare per un cambiamento sistemico. Tale distinzione è la base per conseguire coerenza tra gli strumenti operativi e le ambizioni e i fini che ci si prefigge. Coerenza su cui, purtroppo, scontiamo una duplice barriera: il permanere di muri ideologici e l’obsolescenza di strumenti inadeguati, come l’uso ipertrofico e praticamente esclusivo del PCM- Project Cycle Management che ha caratterizzato gli ultimi 35 anni.

Lavorare per gestione di cicli di progetti: obsolescenza e inadeguatezza

Molti sostengono che la gestione per cicli di progetti faccia fare bene il bene e renda efficiente finanziare l’erogazione di servizi diretti. Personalmente non condivido questa tesi: confonde efficienza con efficacia e, limitandosi a finanziare solo le attività dirette, lascia le organizzazioni in perenne ciclo della fame. Questo le rende meno attrattive e capaci di trattenere presso di sé i migliori talenti, impedisce la coesione e capacità dei team, mina l’apprendimento organizzativo e preclude loro chance di diventare autonome e sostenibili attraverso processi strutturati di digitalizzazione, comunicazione, fundraising e catalyzing capital. Si tratta di una modalità inadeguata, obsoleta, che produce organizzazioni deboli e in concorrenza vitale tra loro, e che, causando un effetto di isomorfismo degli ETS come progettifici, tarpa le ali a quelle imprese sociali che lavorano per il cambiamento dei sistemi in cui operano.

Se il lavorare per cicli di progetti è oggi una modalità inadeguata a rispondere con finalità lenitive a bisogni impellenti per gli enti che si riconoscono nel modello erogativo/e distributivo “beneficienza – erogazione a fondo perduto – servizi diretti”, per gli enti filantropici e le imprese sociali che si prefiggono finalità trasformative di cambiamento sociale sistemico è subdola e dolosa. Il come si fanno le cose è politico, non soltanto tecnico, esattamente come il cosa e il perché. Sappiamo infatti che le organizzazioni a scopo sociale che vogliono produrre un cambiamento sistemico hanno bisogno di capitale paziente e flessibile a sostegno di processi e non di progetti, di organizzazioni e non di attività.

Falso mito numero 2: di quale tipo di capitale dispongono gli enti filantropici e quale tipo di capitale cercano le imprese sociali

La potenzialità degli enti filantropici risiede nella qualità delle risorse messe a disposizione, più che nella loro quantità. Hanno infatti capitale libero e il potenziale di usarlo in modo flessibile, svincolato e paziente a supporto di organizzazioni e di processi di innovazione sociale e cambiamento sistemico che comportano un orizzonte temporale che è possibile identificare in almeno 8/10 anni per essere scalati attraverso partnership, alleanze inusuali, disseminazione e altre strategie di impatto collettivo.

Purtroppo, oggi, viviamo ancora uno iato profondo tra il potenziale e il reale: il tipo di capitale filantropico messo a disposizione resta ancora massicciamente vincolato a progetti (project restricted), a liste di attività e micro KPIs. Nonostante negli ultimi anni si siano accelerati i processi di critica e trasformazione interna, si pensi al periodo pandemico con  800 fondazioni filantropiche negli Stati Uniti e 186 in Europa (di cui 45 italiane) che si sono pubblicamente attivate per modificare le proprie pratiche di finanziamento vincolate, o recentemente il lancio della piattaforma piattaforma, Funding for real change Reimagining project-based giving, da parte di Ariadne- European Funders for Human Rights and Social Change e EDGE Funders Alliance, la strada da percorrere è ancora lunga. Infatti, secondo l’ultimo rapporto di Humentum Breaking the starvation cycle, più del 50% degli enti non profit sopravvivrebbe solo 21 giorni senza progetti, confermando l’enorme elefante nella stanza di un sotto-investimento cronico nelle organizzazioni.

Il come vengono messe a disposizione le risorse è quindi fondante e determinante. Il portfolio di strumenti a disposizione degli enti filantropici va ben oltre l’erogazione di donazioni a fondo perduto vincolate a progetti, e include, per esempio: recoverable grant, forgivable loans, l’impiego del patrimonio in investimenti correlati alla missione o in investimenti in economia reale o energie rinnovabili o impact economy, l’offerta di capitale di credito a tasso zero su fondi rotativi e equity alle imprese sociali, la presentazione di garanzie e prestiti, l’accreditamento di ETS presso altri partner strategici, la collaborazione strategica con altri attori, pubblici e privati, l’assunzione di rischio nella sperimentazione di policies

Falso mito numero 3: imprese sociali diverse dalle profit, perché non si possono sommare le mele con le pere

Oggi scontiamo un’applicazione pedissequa al Terzo Settore, in generale, e alle imprese sociali, in particolare, del “business thinking” come sinonimo di ben gestito ed efficace, una sorta di sudditanza culturale dell’impact investing che nella sua modalità commerciale si omologa a finanza mainstream e venture capital senza comprendere il valore che proprio la distanza da quei modelli potrebbe creare. Questa omologia culturale di fatto porta a pesare le mele con le pere, a snaturare le specificità delle imprese sociali, a soffocarne il potenziale trasformativo e, concretamente, a misurare le cose sbagliate.

Così come la filantropia ha logiche di investimento diverse da quelle della finanza, le imprese sociali hanno logiche di performance e di impatto diverse da quelle delle aziende nel settore privato. La ragione d’essere, le motivazioni di chi ci lavora, l’approccio mentale, gli standard e le metriche di misurazione del successo sono intrinsecamente diversi, penso a: accountability verso i beneficiari, collaborazione come mindset, orizzonte temporale di lungo periodo, scaling deep e scaling out, impatto indiretto e collettivo. Eppure, oggi, alle imprese sociali si continua a chiedere di adeguarsi alle metriche del profit in base ad una sorta di pregiudizio implicito in merito all’efficacia di quest’ultimo. C’è un enorme responsabilità in questo da parte delle business schools.

Si pensi ad esempio all’accountability: le aziende si ritengono responsabili nei confronti della propria governance e i propri azionisti mentre le imprese sociali verso le comunità di persone o gli ecosistemi naturali che subiscono le conseguenze del problema che si vuole risolvere.  

La competizione è il criterio fondante del mondo profit, mentre per quello dell’imprenditoria sociale il mindset collaborativo, la costituzione di partnership inusuali per raggiungere la propria missione è nel suo DNA. E ancora i tempi di riferimento: mentre le aziende misurano le performance in tempistiche annuali e infra-annuali, le imprese sociali che cambiano i sistemi hanno capacità di immaginazione sociale e si tarano su orizzonti di impatto di medio-lungo periodo, di almeno dieci anni.

Infine, si pensi cosa denota il successo per le aziende e per le imprese sociali: per le prime, i risultati di bilancio, per le seconde, che comunque mettono al centro la sostenibilità finanziaria come fattore, significa cambiare i sistemi di riferimento (ad esempio, attraverso nuove norme giuridiche e politiche pubbliche), facilitare la proliferazione e adozione di repliche indipendenti della propria iniziativa (cosiddetto scaling out) per arrivare a più persone possibili e portare cambiamenti culturali profondi e permanenti (scaling deep).

In questa prospettiva in cui contano le repliche indipendenti più che il fatturato e l’impatto indiretto più di quello diretto, i KPIs del profit non funzionano per le imprese sociali che cambiano il mondo perché misurano le cose sbagliate, gli output, e non l’impatto indiretto e collettivo che è ciò a cui più ambiscono questo tipo di changemakers. Nel profit tutto è attribuzione e visibilità, ego e logo sono fondamentali. Nel cambiamento sistemico no, anzi, ciò che rende la trasformazione possibile e sostenibile è l’impatto indiretto e collettivo, la replicabilità open source, senza copyright.

Rompere l’isolamento tra enti filantropici e imprese sociali

In Italia e in Europa l’alleanza e la collaborazione tra imprese sociali e enti filantropici sono state finora imbrigliate da pochissima conoscenza reciproca e molti stereotipi impliciti da entrambe le parti. Si tratta di una frontiera al 99% inesplorata.

L’auspicio è che il SEAP a livello europeo e nazionale inauguri una nuova epoca di alleanza strategica. 

L’umanità e il pianeta oggi hanno di fronte sfide complesse e intersettoriali: solo attraverso una trasformazione culturale capace di sfatare falsi miti e affrontare pregiudizi inconsci si potranno elaborare nuove alleanze e nuovi strumenti, per liberare tutto il potenziale innovativo di trasformazione sociale che il presente rende possibile. Everyone is a changemaker.

Per approfondire https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/un-arcipelago-da-costruire-rompere-l-isolamento-tra-enti-filantropici-e-imprese-sociali

Foto di Pixabay


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA