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Narrazioni

Sommersi dall’onda dei comunicatori-selfie

Lo stile da Narcisi che poi si mostrano con autocompiacimento al mondo senza pudore, ha contagiato tanta comunicazione, compresa quella politica, e non ha risparmiato la narrativa

di Maria Laura Conte

Era autofiction, ma è diventata turbo-narcisismo. Quel genere di narrativa che si sviluppa attorno alle autobiografie degli autori, sempre esistito, è un filo uscito dai binari. 

Impostosi nelle librerie in particolare negli ultimi decenni, per iniziativa di editrici importanti, ha risposto a una domanda del mercato, di lettori interessati alla vita intima degli altri. Solo che ultimamente sembra essersi ammalato di una forma di narcisismo esasperato. Una patologia per altro abbastanza diffusa. 

Tu, lettore e lettrice, che ti fidi delle recensioni generose che presentano certi romanzi freschi di stampa come casi letterari, li compri, ti ci immergi e finisci dentro alle vicende più segrete – a cose che non si possono dire – di chi scrive, delle intimità varie con partner, di figli avuti o cercati o abortiti, e avanti così. E mentre certe pagine ti costringono nella parte di chi origlia in un confessionale la lista del penitente al suo confessore, senti nascere dentro di te domande: ma perché? Dove sono finite le storie?  Dove si sono perse quelle trame non vere-ma vere, non per forza autobiografiche eppure universali? Che fine hanno fatto le narrazioni che anche quando non parlano di fatti vissuti in prima persona da chi scrive, offrono categorie così aperte da essere capaci di svelare a te parti sconosciute di te, e al tempo stesso di aprirti gli occhi sul mondo fuori, con fantasia ma in modo realistico? Faticano a distinguersi in libreria, oggi. E forse non è solo un problema editoriale.

Nel leggere romanzi usciti di recente per Einaudi, Feltrinelli, perfino Adelphi, solo per citare alcune editrici tra le tante, vivi un’esperienza simile a quella di quando scrolli i social

Maria Laura Conte

Lo stile selfie – quello stare chini sul proprio ombelico, da Narcisi che poi si mostrano con autocompiacimento al mondo senza pudore – ha contagiato tanta comunicazione, compresa quella politica, e non ha risparmiato la narrativa. 

Nel leggere romanzi usciti di recente per Einaudi, Feltrinelli, perfino Adelphi, solo per citare alcune editrici tra le tante, vivi un’esperienza simile a quella di quando scrolli i social e ti scorrono davanti sfilate di autoscatti di gente in costume da bagno e tatoo. Anziché una narrazione, che può accendersi attorno a un dettaglio, un episodio sentito in tram, con il suo incipit (chi dimentica “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”), una trama (Amis la sintetizza così: un re morì, e poi morì la regina, apparentemente di dolore), un climax ecc, ci regalano selfie senza veli. 

In questa deriva sembra che certi scrittori vogliano sfogarsi con il lettore, usano toni sopra le righe proprio come fa l’influencer all’inseguimento dei like di chi legge. E non lascia nulla: nessuno spazio all’immaginazione, nessun gancio verso un altrove, nessuno spunto che alimenti quella ricerca di senso che affama tutti, o la curiosità su chi siamo noi e gli altri, sempre in relazione.  Che poi questo sarebbe uno dei tanti mestieri della letteratura: smascherare il mito dell’super-autenticità dell’ego. Quella che idolatra l’idea che essere veramente se stessi sia l’unico obiettivo esistenziale meritevole. 

Mentre forse è interessante anche provare a diventare qualcosa di meglio, o perlomeno a paragonarsi con il diverso, con l’altro. La letteratura sana ci fa diventare altri per un tratto, ci esercita nell’arte dell’immedesimazione per restituirci una capacità di accostare la realtà con un’intelligenza più larga, di vedere e riconoscere le ferite di chi ci abita accanto, nelle nostre società complesse, e i selfie non li pubblica.

Ecco, forse per tutte quelle ferite, per prendersene cura, una buona lettura (e scrittura) sarebbe molto di aiuto. 

Foto di id23 su Unsplash


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