Idee Società
Astensionismo, batterlo si può (ma bisogna volerlo)
«Il "blocco del rifiuto" conta 17 milioni di persone che non votano. Come convincerli? Facendoli partecipare e pesare nelle scelte politiche». Pubblichiamo integralmente e in versione open anche per i non abbonati l'editoriale che apre il numero di VITA magazine del professore e fondatore di Labsus
Purtroppo non ci sono dubbi sulla crisi della partecipazione alla vita pubblica, in particolare se pensiamo alla partecipazione attraverso il voto, perché la democrazia rappresentativa è ovunque nel mondo in profonda crisi. Il sintomo più evidente è l’astensionismo, massiccio e ormai strutturale. I numeri fanno impressione: 36% di astensionismo alle elezioni politiche del 2022, 60% alle elezioni regionali del 2023, 50% alle recenti elezioni europee.
Sono tanti i motivi per cui ormai da anni milioni di elettori non vanno a votare, ma è bene ricordare che non tutti questi motivi sono riconducibili all’indifferenza o alla delusione, perché molti elettori, se potessero, forse a votare ci andrebbero. Si tratta del cosiddetto “astensionismo involontario”, in cui confluiscono in primo luogo 3,8 milioni di anziani non autosufficienti e e poi, soprattutto, i cosiddetti “fuori sede”, 5 milioni di elettori che lavorano o studiano in località diverse dal comune di residenza e che rappresentano il 10% del corpo elettorale. Non sarebbe difficile per il legislatore intervenire per tutelare il diritto di voto di questi nostri concittadini!
Esiste poi una forma di “astensionismo per deprivazione”, quello dei 5,752 milioni di individui (Istat) in povertà assoluta. Molti di costoro sono stranieri che non voterebbero comunque, ma la maggioranza sono nostri concittadini in condizioni di povertà sia economica, sia educativa. Spesso, soprattutto al sud, sono giovani in condizioni di grave disagio sociale che hanno abbandonato la scuola e non trovano lavoro. Come si può pretendere che in queste condizioni trovino la forza, il tempo e le motivazioni per partecipare alla vita pubblica anche soltanto andando a votare?
Rimane comunque vero che la stragrande maggioranza di coloro che non vanno a votare non sono “astensionisti involontari” bensì per scelta. Una parte non vota perché non si riconosce in nessuna forza politica, ma una parte molto consistente dei non votanti è costituita dagli indifferenti e dai delusi.
Gli indifferenti si sentono estranei a tutto ciò che esula dalla stretta sfera dei loro interessi individuali e familiari, non si sentono parte di una comunità, né pensano di avere dei doveri nei confronti della comunità, tanto meno il “dovere civico” di andare a votare. I delusi sono quelli che pensano che votare non serva a nulla, che il loro voto non cambierà niente, che la politica sia lontana dai loro problemi, incapace o peggio ancora non interessata a risolverli. Si sentono impotenti e trascurati e quindi protestano nei confronti della politica non andando a votare. È al tempo stesso una protesta e una richiesta di attenzione da parte di persone che sono scontente della propria situazione, ma hanno perso la speranza di poter migliorare le loro vite attraverso la politica e non hanno più fiducia nella democrazia.
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In un modo o nell’altro, tutti coloro che non votano per scelta costituiscono quello che potremmo chiamare il “blocco del rifiuto”. Si tratta di 17 milioni di persone (se fosse un partito, il partito del non voto sarebbe il primo partito) che non votano perché si rifiutano di partecipare alla vita della comunità. Anche se poi, come gli evasori fiscali, non si fanno problemi a godere dei vantaggi che derivano dal far parte di una comunità.
Dunque, se veramente siamo di fronte ad un rifiuto della partecipazione di questa portata, allora è urgente andare “al cuore della democrazia” per mettere in campo iniziative che recuperino gli indifferenti e i delusi ridestando in loro l’interesse per la vita pubblica, perché ne va del futuro della democrazia nel nostro Paese. Bisogna intervenire su tanti fronti, tenendo conto anche delle diverse forme della democrazia.
È necessario innanzitutto rafforzare la democrazia rappresentativa, che è in profonda crisi di credibilità. Gli interventi necessari, da quelli sui sistemi elettorali alla selezione di una nuova classe dirigente, sono noti da tempo, però manca il senso di urgenza e la volontà di attuarli, come se non ci si rendesse conto che il non voto sta corrodendo le fondamenta della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. È necessario in secondo luogo che i soggetti pubblici, in particolare le amministrazioni locali, imparino ad utilizzare ovunque possibile gli strumenti della democrazia deliberativa e partecipativa, ascoltando i cittadini per coinvolgerli nell’assunzione delle decisioni di maggior impatto riguardanti il loro territorio.
In parallelo bisogna però mettere a disposizione dei cittadini e, in particolare, della società civile organizzata strumenti di partecipazione alla vita pubblica nuovi, alla portata di tutti, che diano risultati immediati e concreti in termini sia di soddisfazione dei bisogni, sia di realizzazione personale. Grazie all’introduzione in Costituzione nel 2001 del principio di sussidiarietà questi strumenti esistono e sono collaudati da un’esperienza ormai decennale in migliaia di casi, su scala nazionale. Sono i patti di collaborazione, fondati sulla teoria dell’amministrazione condivisa.
I patti servono ai cittadini ed alle amministrazioni pubbliche per “tradurre” il principio costituzionale di sussidiarietà in atti amministrativi con cui il comune ed i cittadini concordano tutto ciò che è necessario per la cura dei beni comuni in forma condivisa, liberando le infinite energie nascoste nelle nostre comunità. A prima vista, sembra che i patti servano “solo” a migliorare la qualità dei beni pubblici e, di conseguenza, anche la qualità della vita di tutti (e non è poco!). Ma i patti sono come gli iceberg, la parte più importante non si vede. Non si vede, infatti, che i patti “fanno comunità”, aiutano a contrastare la solitudine, producono capitale sociale, coesione sociale e senso di appartenenza, rafforzando i legami che tengono insieme le nostre comunità locali. E un’altra cosa che non si vede è che i patti sono uno strumento di partecipazione alla vita pubblica del tutto nuovo, ma semplice da usare e alla portata di tutti, con risultati immediatamente visibili. I cittadini attivi che sottoscrivono i patti di collaborazione “usano” infatti i loro diritti costituzionali per riunirsi, discutere, organizzarsi, prendere decisioni… in una parola, fanno politica. In questo senso i patti sono piccole “palestre di democrazia” diffuse sul territorio. Ma, soprattutto, sono incubatori di fiducia fra i cittadini stessi e fra questi e le istituzioni; è forse l’effetto principale dal punto di vista della partecipazione: se non c’è fiducia, se non c’è la speranza di poter cambiare le cose, non si partecipa.
Foto di Taylor Smith su Unsplash
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