Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

New business

Chi stabilisce il valore di un’impresa sociale?

Settore pubblico, erogazioni filantropiche, strategie legali o finanziarie. Quali le conseguenze se sono loro a guidare i processi imprenditoriali.E quali le alternative?

di Flaviano Zandonai

Che imprese sociali sono organizzazioni a cui viene suggerito di far stabilire il valore del loro principale capitale (il lavoro) al loro principale cliente (che le ha fin qui piuttosto maltrattate), cioè il settore pubblico? O organizzazioni indotte dai soggetti che ne sostengono lo sviluppo (filantropia e finanza) a definire, grazie a consulenti “gentilmente” messi a disposizione, le loro strategie e priorità d’investimento? E ancora quale imprenditività a scopo sociale emerge da operazioni di fusione e accorpamento dove a dettare la linea sono gli aspetti legali e societari e non opportunità e innovazione? E infine quale spazio esiste per produrre beni e servizi all’interno di coprogettazioni che spezzettano le attività secondo una logica da divide et impera, remunerando con contributi a copertura e non con corrispettivi che riconoscono i giusti margini per patrimonializzare e investire?

Facile rispondere, lasciando intravedere un destino già segnato in forma di aziende di erogazione fortemente codeterminate da fattori esogeni che non si limitano a influenzare, ma a plasmare un nuovo profilo organizzativo svuotato (o quasi) di propensione al rischio e al cambiamento attraendo e combinando a tal fine risorse di natura diversa. Il tutto aggravato da una fase storica in cui tutto ciò che è di “interesse generale” è al centro di una vera e propria rivoluzione copernicana in termini di priorità, disponibilità e allocazione delle risorse e governance di sistemi fortemente sollecitati da tensioni socioambientali e geopolitiche.

In realtà le domande poste in apertura soffrono di un vizio di origine, ovvero una retorica giudicante che pur di confermare le proprie posizioni o profezie tende a operare un’eccessiva semplificazione della realtà. Un modo di porre le questioni che appare ancor più limitante considerando che spesso scaturisce da contesti di ricerca che invece dovrebbero promuovere una conoscenza basata su evidenze che sfidano le teorie e i modelli interpretativi.


Scegli la rivista
dell’innovazione sociale



Sostieni VITA e aiuta a
supportare la nostra missione


La riformulazione degli interrogativi richiede, oltre a un po’ più di apertura al confronto e di flessibilità delle posizioni, un riposizionamento dei focus di analisi sulle organizzazioni e sul loro funzionamento dopo aver assegnato un’attenzione prevalente ai contesti o ambienti in cui queste operano. Un passaggio che può contribuire a riscrivere la narrativa e, con essa, i percorsi di crescita e di sviluppo dell’imprenditoria sociale. Ecco quindi alcuni ambiti promettenti da indagare. In primo luogo la strutturazione di sistemi di offerta che agiscono sulle disuguaglianze puntando anche su modelli di consumo consapevole degli strati più elevati della società, non disdicendo forme di sgocciolamento in termini di compensazioni economiche per favorire l’accessibilità agli stessi beni e servizi per le fasce più deboli. In secondo luogo il tentativo di internalizzare la catena del valore degli impatti, investendo in competenze e dotazioni tecnologiche che favoriscano pratiche di impact management, limitando l’esternalizzazione e la perdita di know how a favore del comparto consulenziale e dei finanziatori. In terzo luogo accanto alla ristrutturazione delle organizzazioni esistenti sembra persistere la propensione allo startup di nuovi veicoli organizzativi il cui carattere ibrido consiste non tanto nelle forme societarie come le società benefit o le Siavs, ormai sdoganate, ma soprattutto nella capacità di contaminare i modelli di business tradizionali attraverso operazioni di open innovation di tipo outbound. L’intento è di proiettare all’esterno innovazioni prototipate internamente cercando partner adeguati in ambienti diversi. Un approccio che, in generale, è ancora poco praticato e di cui si sente la mancanza a fronte di un certo rallentamento del modello inverso (inbound) basato su partnership con innovazioni prese dall’esterno (tipicamente attraverso accordi con imprese innovative) e poi innestate nelle operazioni interne. Infine è da rileggere il ruolo degli imprenditori sociali come imprenditori di politiche, in una fase in cui sia in senso bottom up (innovazioni sociali emergenti) sia in senso top down (politiche di missione come il Pnrr) non mancano le sollecitazioni, soprattutto per chi vuole generare impatti facendo convergere e armonizzando istanze e processi di policy che sono spesso divergenti o conflittuali.

Foto: Pixabay


La rivista dell’innovazione sociale.

Abbònati a VITA per leggere il magazine e accedere a contenuti
e funzionalità esclusive



Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA