Idee Modelli di sviluppo
Dalla cultura dell’erogazione alla cultura della partecipazione
Una parte significativa dei finanziamenti destinati al Terzo settore italiano proviene da contributi pubblici e privati, resi accessibili attraverso bandi e avvisi gestiti da enti pubblici e fondazioni. I modelli sono due. Ma solo uno contribuisce alla creazione di capitale sociale e soprattutto eleva la qualità della progettazione
di Luigi Lochi

Il progetto di riuso di un bene confiscato o di un bene comune, quello di rigenerazione urbana, quello di promozione di ecosistemi culturali, quello di inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati…, sono progetti sociali, non solo perché hanno ricadute nella società, ma anche perché sono promossi da soggetti espressione del cosiddetto Terzo settore, che per definizione è la società civile organizzata in associazioni, imprese sociali e altre tipologie di enti. Le esperienze maturate nel campo della valutazione dei progetti sociali, mi spingono a condividere alcune brevi riflessioni.
Una parte significativa dei finanziamenti destinati al Terzo settore italiano proviene da contributi pubblici e privati, resi accessibili attraverso bandi e avvisi gestiti da enti pubblici e fondazioni. In estrema sintesi, le prassi valutative in uso richiamano due approcci distinti.
Ci sono, in primo luogo, sistemi di valutazione costruiti intorno agli output e agli outcome: le azioni di progetto messe in atto producono risultati (output) che impattando il contesto sociale ed economico coinvolto producono benefici misurabili (outcome). I risultati ottenuti sono semplicemente un mezzo e non un fine. Il vero obiettivo di un progetto è quello di realizzare determinati outcome, cioè cambiamenti significativi, durevoli e misurabili nella comunità o nei beneficiari. Questi sistemi di valutazione, inoltre, sono attenti alla dimensione partecipativa: il progetto non è solo un racconto (descrizione del contesto, rappresentazione dell’impatto sociale, attestazione della sostenibilità economica, credibilità dei proponenti, relazioni con stakeholder, innovazione, etc), ma anche, e forse soprattutto, uno strumento di animazione territoriale. Attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder e dei beneficiari, infatti, lo stesso processo progettuale si rivela una opportunità di promozione della coesione sociale di un territorio, volano di sviluppo dell’economia civile. Il coinvolgimento attivo degli attori sociali e istituzionali nell’identificazione di strategie, obiettivi e azioni è un aspetto essenziale per generare un cambiamento sociale significativo. Da questo punto di vista, allora, il processo progettuale è costruzione di un racconto, ma è anche di più: è concreto esercizio di democrazia.
Ci sono, poi, bandi che prevedono meccanismi “automatici”, in quanto fanno riferimento a parametri oggettivi (gli anni di esperienza del soggetto proponente, il numero di partner coinvolti, il numero di beneficiari, il numero di eventi, etc.), senza richiedere particolari approfondimenti circa le modalità operative delle attività previste e soprattutto circa la sostenibilità economico-finanziaria nel tempo delle stesse. Ma soprattutto, senza prestare alcuna attenzione al processo: se si vuole valutare la portata vera degli output di un progetto, non possono essere ignorati, laddove si siano realizzati, le azioni di “infrastrutturazione sociale”, che rappresentano un importante valore aggiunto della iniziativa. Peraltro, se si attribuisce un particolare peso agli elementi “freddi” della proposta è più facile che quest’ultima diventi esclusivamente “un prodotto” del progettista.
Un percorso progettuale partecipato non solo genera nuove relazioni e idee, ma accresce la consapevolezza dei problemi, contribuisce alla creazione di capitale sociale e soprattutto eleva la qualità della progettazione.
Il modello oggi prevalente, basato esclusivamente sull’erogazione di risorse, mostra evidenti limiti in quanto non assicura una crescita reale delle comunità. Queste ultime, infatti, da soggetti attivi di “domanda”, come dovrebbero essere, (domanda di servizi, di opportunità, di connessioni) si riscoprono spesso soggetti passivi di ricezione di risorse, meri (e anche ignari) destinatari di interventi costruiti unicamente a partire dalla “estrazione” di risorse da una “offerta” non sempre attenta ai veri fabbisogni.
Il disallineamento tra il processo di costruzione del progetto e il sistema di valutazione infine, riduce la fase di monitoraggio dei risultati ad una attività meramente ragioneristica, coerentemente appunto con la cultura dell’erogazione oggi prevalente.
Sarebbe auspicabile, invece, per tutte le ragioni esposte, che entrambi i processi, quello progettuale e quello valutativo, passassero dalla cultura della erogazione alla cultura della partecipazione.

Luigi Lochi, autore di questo articolo, è un esperto delle normative dei beni confiscati: attualmente collabora con Fondazione con il Sud per la realizzazione di interventi di infrastrutturazione sociale e sviluppo locale e dirige una società di servizi in campo socio sanitario
Foto Archivio VITA: bene confiscato e ridestinato a usi sociali a Milano
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