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Tecnologia

Di fronte ai cambiamenti sempre meglio “agire” che resistere

Guardare a come si è sviluppato il dibattito sull'impatto delle tecnologie sulla nostra vista rischia di portare a un senso di impotenza, o a una resistenza come suggerisce Edgar Morin in un recente intervento. Una terza via è quella di vivere da persone libere e consapevoli, capaci di cogliere le opportunità dell'era digitale

di Antonio Palmieri

“Io così piccolo tra tutta questa gente che c’è al mondo” è un verso di “Strada facendo“, canzone di grande successo di Claudio Baglioni. Un verso che ho sempre interpretato in due modi opposti: una sensazione di “piccolezza”  che apre il cuore, come quella che ci prende per esempio di fronte a un cielo stellato; l’irrilevanza e il senso di impotenza che viene dall’essere di fronte a qualcosa che sembra soverchiarci, nei cui confronti ci sentiamo impossibilitati a fare alcunché.

Quest’ultima sensazione è quella prevalente, guardando come si è sviluppato nell’ultimo anno il dibattito sull’impatto delle tecnologie sulle nostre vite, a partire naturalmente da quello legato all’intelligenza artificiale. La sproporzione tra noi, i grandi interessi economici e geopolitici in campo e la potenza della tecnologia sembrano ridurre al lumicino le possibilità che abbiamo di poter essere in qualche modo protagonisti. Se poi a tutto questo uniamo le guerre in atto, la questione ambientale, i pericoli per la democrazia, il dibattito presenta una situazione in cui “le crisi si alimentano a vicenda in una sorta di policrisi ecologica, economica, politica, sociale e di civiltà in continua crescita”, come scrive Edgar Morin in “La resistenza dello spirito“, articolo pubblicato su Repubblica il 24 gennaio.

Alla veneranda età di 102 anni, Morin, sociologo, filosofo, saggista, iniziatore del “pensiero complesso”, studioso della cultura di massa e dei media vecchi e nuovi, è un pensatore stimato, vivace e interessante. Per questo motivo mi ha colpito come gran parte della sua riflessione schiacciasse sulla accezione negativa del verso della canzone di Baglioni. “Legato al dominio del calcolo – scrive Morin – in un mondo sempre più tecnocratico, il progresso delle conoscenze è incapace di concepire la complessità della realtà e in particolare delle realtà umane. Il risultato è un ritorno ai dogmatismi e ai fanatismi, e una crisi della morale mentre si scatenano gli odi e le idolatrie. Stiamo andando verso delle probabili catastrofi“. 


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Non ho mai apprezzato il catastrofismo. Continuare a insistere sui concetti di policrisi o di permacrisi è un atteggiamento che produce solamente moralismo (la colpa è sempre degli altri), disimpegno (sono impotente a fare alcunché, quindi penso solo a me stesso) e rinuncia a fare quel poco (o tanto) che ciascuno è in grado di fare. 

Legato al dominio del calcolo in un mondo sempre più tecnocratico, il progresso delle conoscenze è incapace di concepire la complessità della realtà e in particolare delle realtà umane…

Edgar Morin

In questo modo non si va da nessuna parte, specialmente in un mondo interconnesso come il nostro. Se ne sono accorti anche al World Economic Forum, la cui 54esima edizione si è tenuta a Davos un mese fa. Nel 2023 si erano focalizzati sulla permacrisi. Quest’anno hanno usato come titolo “Ricostruire la fiducia” e indicato come parole chiave fiducia, trasparenza, coerenza e responsabilità. 

Hanno forse compreso che non di soli disastri e prospettive negative vive l’uomo e, di conseguenza, l’economia?

Nel nostro piccolo, un anno fa noi della Fondazione Pensiero Solido abbiamo promosso una serie di riflessioni dal titolo “Permacrisi? No, permacambiamento!” proprio a significare che questa epoca di continuo e inedito cambiamento se da un lato sembra ridurci all’impotenza dall’altro, proprio grazie alla tecnologia, ci mette a disposizione gli strumenti che ci consentono di poter essere ri-generativi, cioè capaci di generare nuove opportunità di bene, per noi e per gli altri. A patto di essere consistenti. Come scrivevo qui qualche mese fa, “non bisogna più vergognarsi di essere dei “custodi del seme”, non bisogna farsi turbare dalle notizie e dalle profezie di sventura”.

Come liberarci dal turbamento? Nella parte finale del suo articolo Morin afferma che “dobbiamo passare alla Resistenza”, evocando ciò che avvenne nel 1940 nell’Europa occupata dai nazisti. Naturalmente le condizioni sono diverse: “Non siamo attualmente sotto un’occupazione militare nemica: siamo dominati da formidabili potenze politiche ed economiche e minacciati dall’instaurazione di una società sottomessa. Siamo condannati a subire la lotta tra due giganti imperialisti con la possibile irruzione bellica di un terzo. Siamo trascinati in una corsa verso il disastro”.

Secondo Morin, in tale disastroso contesto la nuova resistenza si può fare così:

  • resistendo alle menzogne propinate come verità e al contagio delle ubriacature collettive; 
  • non cedendo al delirio della responsabilità collettiva di un popolo o di un’etnia o all’odio e al disprezzo; 
  • facendo la fatica di comprendere la complessità dei problemi; 
  • verificando le informazioni e accettando le incertezze;
  • creando “oasi di comunità” dotate di una relativa autonomia agro-ecologica e reti di economia sociale e solidale;
  • coordinando associazioni che si dedicano alla solidarietà e al rifiuto dell’odio. 

La policrisi che stiamo vivendo in tutto il pianeta è una crisi antropologica: è la crisi dell’umanità che non riesce a diventare Umanità

Edgar Morin

Quasi tutte queste indicazioni sono in sé condivisibili. Il punto debole è che sono collocate in una visione disperante. Reagire a volte è necessario, ma è sempre meglio “agire”, cioè partire da una prospettiva positiva della vita e della realtà, da un desiderio di bene, per sé e per gli altri, da un perché solido. Se non ci si colloca in questa prospettiva, temo sia utopistico pensare, come scrive Morin, che “la resistenza preparerebbe così le giovani generazioni a pensare e ad agire per le forze dell’unione, della fraternità, della vita e dell’amore che possiamo concepire come Eros, contro le forze della dislocazione, della disintegrazione, del conflitto e della morte”. Perché i giovani, diventati adulti, dovrebbero comportarsi diversamente dai loro predecessori? In forza di quali motivazioni? 

È una questione di educazione e di realismo. Per la prima, occorre ripristinare la figura del maestro, dell’autorità, cioè di chi sa “aumentare” la vita dell’altro, indicando non solo una strada, ma accendendo la luce che ciascuno ha in sé. 

Quanto al realismo, basta considerare la prospettiva suggerita dalla parabola del grano e della zizzania. Entrambi sono destinati a crescere l’uno accanto all’altra, per sempre e indissolubilmente, nella società, nella tecnologia, nel cuore mio e tuo. Questo significa che non ci si deve scandalizzare per i tempi difficili, ma trovare pazientemente e tenacemente il positivo che c’è, anche se non fa notizia. Come diceva Sant’Ambrogio “Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi.”

Se sapremo “vivere bene”, coniugando educazione e realismo faremo rinascere la speranza. Questo non riguarda solo i giovani, come dice Morin, ma ci riguarda tutti, senza limiti di età. Infatti, così come l’impatto delle tecnologie ci obbliga a un continuo percorso di aggiornamento e di apprendimento di nuove abilità e competenze (quelli che sanno lo chiamano upskilling e reskilling) allo stesso modo oggi siamo chiamati a recuperare e a rinsaldare il nostro baricentro personale. 

Morin afferma che “La policrisi che stiamo vivendo in tutto il pianeta è una crisi antropologica: è la crisi dell’umanità che non riesce a diventare Umanità“. In realtà l’umanità da sempre vive in una policrisi. Ogni epoca ha la sua e l’umanità sarà sempre immatura, perché è impastata nel limite, nell’errore e nel peccato e allo stesso tempo è capace di imparare, di ripartire, di perdonare. L’umanità è zizzania, ma anche buon grano. Se sapremo tornare a essere consapevoli di questo, allora potremo affrontare la realtà e cogliere le opportunità dell’era digitale. Lo faremo non “resistendo”  ma agendo da persone libere, capaci di fare il meglio che possiamo nelle condizioni date. In conclusione, la prospettiva adeguata è quella che ci indicano i titoli di due libri. Il primo è del filosofo Karl Raimund Popper e si intitola: “Tutta la vita è risolvere problemi“. Il secondo è di don Luigi Giussani, “Certi di alcune grandi cose“. Se li mettiamo in fila diventano: tutta la vita è risolvere problemi, certi di alcune grandi cose. Mi sembra la prospettiva più adeguata per vivere l’esistenza invece di limitarci a una triste resistenza.

In apertura photo by note thanun on Unsplash


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