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Gaza: la guerra delle parole

Il conflitto in Palestina ha messo in crisi il lessico dei mezzi di informazione che si sono dati regole stringenti. Dicono: «A seconda delle sillabe che si scelgono, ci si schiera di qua o di là. Ci si smaschera, perché le parole non sono mai neutre, e dove ci si spara, sono pallottole aggiuntive». Ma forse basterebbe il semplice buon senso

di Maria Laura Conte

Mentre in Medio Oriente dal 7 ottobre migliaia di persone innocenti (per un terzo bambini) hanno perso la vita, morte ammazzate, qui da noi si fa la guerra di parole: si sta affacciati sui giornali e social media nel tentativo di decidere dove stia la verità, chi abbia ragione. «Tu da che parte stai?»: questa domanda sta nascosta nelle pieghe di post, cronache e opinioni, ci viene addosso e induce a reazioni istintive, sfoghi esasperati che contribuiscono ad alimentare un clima in cui ogni parola diviene il gancio al quale attaccare polemica e conflittualità. Senza tregua. 

Al punto che, per evitare di finire triturati dalle macchine del fango, alcuni media si sono dati dei manuali di stile che indicano ai propri dipendenti quali parole usare (e quali evitare), hanno inserito dei sistemi di warning per dettare la linea da mantenere nell’informare su determinati temi sensibili.

Per evitare di finire triturati dalle macchine del fango, alcuni media si sono dati dei manuali di stile che indicano ai propri dipendenti quali parole usare e quali evitare

Amanda Barrett, a capo di “Standards and Inclusion” (titolo che meriterebbe un’indagine) all’Associated Press, una delle più autorevoli agenzie di stampa nel mondo, è stata citata qualche giorno fa in un pezzo del Washington Post sulla war of words, la guerra di parole che si combatte attorno e dentro al conflitto (o guerra?) a Gaza (o Palestina?) e in Israele. Questo fa per esempio lo Stylebook di AP: indicare come definire ciò che accade in queste ore in Medio Oriente (se guerra o conflitto), e anche i luoghi geografici.

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Da quando alcuni «uomini armati da Gaza sono entrati in Israele e hanno ucciso 1.400 persone», scrive il Washington Post, le imprese che fanno informazione si distinguono per il wording di ogni singolo elemento della notizia.

Quegli uomini erano “terroristi”? Per la CNN e Fox News sì. Mentre erano “militanti” per il Washington Post e BBC, finché non hanno cambiato idea, e semplicemente “uomini armati ” per NPR,  “combattenti” per Al Jazeera English. Erano soldati di una “organizzazione terroristica”, come scrive Business Insider? Oppure “della forza che governa la striscia di Gaza”, come li chiama il New York Times?

A seconda delle sillabe che si scelgono, ci si schiera di qua o di là. Ci si smaschera, perché le parole non sono mai neutre, e dove ci si spara, sono pallottole aggiuntive.

Lo spiega Barrett: “terrorismo” è ormai una definizione politicizzata, quindi il solo usarla spinge l’analisi in un angolo, così come parlare di “occupazione” in riferimento a Israele, perciò è meglio provare a descrivere la situazione nei vari dettagli più che “etichettarla” in modo netto. 

Altre parole-etichetta sono evacuazione e pulizia etnica, come sceglierle? Meglio la prima per lo Stylebook di AP. Anche cercare di definire gli avversari non è semplice: sono Israele e Gaza? Oppure Israele e i palestinesi? Ogni lettera è scivolosa, nel senso che fa slittare le cronaca verso gli estremi, mentre aspirerebbe all’oggettività.

Il giornalista del Washington Post che volesse usare la parola “terrorismo”, deve chiedere l’approvazione al suo capo. Idem per l’uso di “invasione”, al quale per il manuale di riferimento meglio preferire attacco o incursione.

Negli appassionati di ecologia lessicale suscitano ammirazione questi libri di stile: invitando alla cautela, ricordano quanto il nostro modo di parlare e scrivere può ferire, costruire delle realtà parallele a quella vera, o alimentare ulteriori divisioni. Ma qualcosa non torna: questo sforzo di incasellare la realtà dentro a delle griglie, di risolvere la complessità creando procedure, stride.

Nessuno come T. Eliot de “I Cori della Rocca” ha saputo mettere in versi questa tensione umana abbastanza fallimentare.

Scrisse di noi uomini: Essi cercano sempre di evadere/dal buio esteriore e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono. Torna in mente lui, Eliot, quando si sfoglia la sezione dedicata alla guerra in corso dello Stylebook di AP: per uscire dal buio feroce in cui siamo precipitati, ci attacchiamo a procedure, a dizionari, perché non ci venga richiesto di essere buoni, di usare buon senso, di allargare la mente per guardare ciò che accade, senza filtri, senza partigianeria, con lealtà. Ci sono vita e morte fuori dai desiderati sistemi perfetti, e sfondano ogni rete di controllo. Vita e morte, vicende umane che ci spingono a optare per un dialogo – fatto di parole libere – con la realtà intera, con la storia presente e passata. E con il futuro.

Foto: Pexels/Peter Steiner


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