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Impact investing: come uscire dalla bolla neoliberale

La finanza d’impatto nasce come mix tra ideologia neoliberale, politiche redistributive e filantropia. Se però l’impact investing è un agente di trasformazione del contratto sociale, non può essere considerato come una semplice tecnica finanziaria, ma richiede di essere inquadrato in una prospettiva politica

di Filippo Addarii

L’impact investing o finanza d’impatto nasce come mix tra ideologia neoliberale, politiche ridistributive e filantropia. Nasce a cavallo del millennio nei circoli finanziari di Londra e NY in dialogo con l’asse neo-democritci americani e neolaburisti britannici. Diventa politica pubblica con il Manifesto dei conservatori “The Big Society“ del 2010 per poi assurgere a un ruolo internazionale quando lo stesso governo britannico lancia, nel 2012, la task force del G8. L’Unione europea fa seguito con la “Social Business Initiative” nel 2011. Negli anni successivi limpact investing cresce sull’onda della finanza per la transizione climatica e gli investimenti ESG. 

È stata un’ascesa precipitosa, con una crescita in volumi e visibilità pubblica, ma per molti versi con una visione ambigua e confusa. La finanza d’impatto è cresciuta a rimorchio della finanza sostenibile, confondendosi e stemperandosi in quest’ultima. Ne ha fatto le spese la dimensione sociale sacrificata rispetto a clima, transizione energetica e impatto ambientale. 

La finanza d’impatto è cresciuta a rimorchio della finanza sostenibile, confondendosi e stemperandosi in quest’ultima. Ne ha fatto le spese la dimensione sociale sacrificata rispetto a clima, transizione energetica e impatto ambientale

Strategie economiche e visioni del mondo differenti se non addirittura divergenti hanno corso insieme per conquistare una fetta decisiva dell’economia mondiale e sempre più spazi politici. Tutti hanno partecipato alla scalata. La leadership è rimasta nelle mani dei network di investitori e fondazioni anglo-americane ma anche della finanza sociale italiana che, nonostante la differente una matrice culturale (cristiana e socialista) ha giocato un ruolo.

Difficile fare un bilancio dei risultati ottenuti ma ora non possiamo esimerci dal domandarci quale futuro l’impact investing ci offra al di là dei soliti slogan filantropici che ci trovano tutti tanto d’accordo quanto annoiati per la loro reiterazione all’infinito.  E, soprattutto se, in quanto strategia d’investimento, sia utile in questo preciso momento storico ad affrontare le sfide planetarie: transizione climatica, impatto dell’AI e trasformazione socio-economica. 


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Questa non è speculazione intellettuale. La scorsa settimana ho partecipato a un panel di discussione sul ruolo dello Stato nella promozione dell’impact investing market organizzato dalla Commissione Europea (la Direzione generale per le politiche sociali e il lavoro). Il panel riuniva un parterre di esperti internazionali del settore ed era stato organizzato con l’intento di raccogliere input per prossimi disegni di legge. 

Perfect timing: a Bruxelles si preparano al prossimo ciclo normativo che partirà dopo le elezioni del parlamento europeo e la successiva formazione della nuova Commissione europea. Non si può perdere un’occasione del genere. Però l’esercizio non è da prendere alla leggera. 

Il mio sistema di allerta è entrato in funzione quando, fin dall’inizio della discussione, le istituzioni pubbliche sono state relegate al semplice ruolo di promotore e facilitatore dei mercati finanziari. Per un momento mi sono vestito dell’armatura di Marianna Mazzucato che, come una novella Giovanna d’Arco, reclamava il primato della politica. Ho scatenato una levata di scudi a difesa della libertà del mercato quando ho menzionato “Mansion House Reforms“, la politica industriale che il governo britannico ha varato l’anno scorso per costringere i fondi pensioni a investire parte dei loro asset nell’economia reale. Una misura a favore della crescita del Paese. 

Ecco lo spettro dell’ideologia neoliberale rispuntare a insaputa degli agenti, ma l’impact investing non se lo può permettere se vuole assolvere alla propria missione costitutiva: mettere i mercati finanziari al servizio della società e del pianeta. 

I filantropi sono liberi di utilizzare la loro ricchezza come preferiscono (se escludiamo le esenzioni fiscali) e l’impresa privata è completamente libera fintanto che ottempera ai requisiti di legge. L’impact investing, invece, deve essere sottoposto a un livello di scrutinio pubblico di qualità sostanzialmente superiore nel momento in cui i suoi investimenti intendono incidere in quegli ambiti in cui lo Stato è responsabile rispetto ai diritti dei cittadini e al pianeta. In altre parole, se l’impact investing è un agente di trasformazione del contratto sociale, non può essere considerato come una semplice tecnica finanziaria a disposizione della libera iniziativa, ma richiede di essere inquadrato in una prospettiva politica. 

Le origini neoliberiste dell’impact investing sono storia del passato. Dopo lo shock del Covid, gli effetti sempre più evidenti della crisi climatica e gli interventi massicci di politica industriale nell’ordine di triliardi in investimenti pubblici su tutti i principali settori economici inclusa la transizione climatica, nessuno ha più la pretesa di erigere il mercato a salvatore del mondo. Archiviamo la favoletta. Non ci credono neppure gli stessi liberisti. Eventualmente si è invertita la relazione. Il mercato diventa strumento attuativo della programmazione dei governi e degli organismi internazionali. Soltanto il dibattito pubblico nei paesi occidentali non ha ancora metabolizzato il cambio di marcia. 

Quest’anno abbiamo una sequela di test democratici. In Europa ci attendiamo un cambiamento storico con una forte virata a destra mai vista prima nel parlamento europeo. Non ho grandi aspettative perché il cambiamento creerà forti rallentamenti. ma possiamo contare  soltanto su una nuova politica per la difesa. Forse una anche una versione europea del Mansion House Reforms come evoluzione del Green Deal. Di sicuro vedremo un tentativo da parte della politica di riguadagnare terreno rispetto ai mercati. 

In questo scenario mi piacerebbe vedere un European Social Deal che affronta con approccio di sistema la trasformazione del lavoro, la demografia e migrazione, ma non ci conterei. Mi aspetto, invece, che si apra una finestra per i nuovi strumenti di finanza d’impatto: una nuova generazione di social impact bond e social outcome contract che grazie all’evoluzione tecnologica e disponibilità dei dati possono diventare davvero motori per la riforma delle politiche sociali. Sarà l’iniziativa privata a iniziare il processo e potremmo vedere anche l’avvio di un mercato dei crediti sociali sulla scorta di quelli per le emissioni. 

Anche la montagna di debito pubblico cumulata nelle crisi potrebbe creare spazio all’emersione dei nuovi strumenti di debito tematici sul modello dei sustainability linked-bond che legano il rendimento al raggiungimento di obiettivi non finanziari stabiliti al momento dell’emissione. Strumenti di questo tipo focalizzano il debito pubblico a obiettivi strategici, imbrigliando la generosità elettorale dei politici, e, idealmente, divertendo la speculazione privata dalle cryptocurrency e simili a investimenti per la crescita sana. Sognerebbe anche l’impact investing dal venture capital e private equity – il giardinetto dei High Net Worth Individuals – per passare ai mercati del fix income e investimenti pubblici. Allora sì che cominceremo a vedere l’emergere di un mercato con tutti i suoi connotati come un social rating degli investimenti e l’impatto con effetti di sistema. 

Infine, non possiamo più lasciare in secondo piano il calcolo geopolitico. I governi autoritari hanno compreso l’efficacia elettorale di perseguire politiche finalizzate a creare i nuovi mercati della sostenibilità. Anche per i governi occidentali è venuto il momento di riconciliare politica estera e investimenti per lo sviluppo. Niente di nuovo sotto il cielo. Si tratta di agire partendo da programmi d’investimento quali il piano di ricostruzione dell’Ucraina così come il Fondo italiano per la Transizione Climatica nei Paesi in via di sviluppo e il Piano Mattei per l’Africa. 

Foto di cottonbro studio/Pexels


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