Idee Inclusione sociale
La marginalizzazione delle comunità di cura
Il riconoscimento accademico e professionale degli operatori è stato certamente un passo importante, che ha permesso di valorizzare le competenze e la dignità di chi lavora in questi contesti. Ma allo stesso tempo, le comunità sono state rinchiuse in categorie rigide, definite sulla base dei gruppi di “pazienti” a cui si rivolgono. Così, la cura si è spersonalizzata, perdendo quell’ampiezza e profondità che avevano motivato la nascita stessa delle comunità

Vorrei provare a riflettere su una possibile definizione degli spazi di cura, perché credo che oggi più che mai sia necessario interrogarsi su cosa significhi prendersi cura in un contesto sociale che sta cambiando profondamente. Non credo sia più realistico immaginare un ritorno a quel Welfare State tradizionale che ha caratterizzato buona parte del Novecento. Ogni sistema di welfare è figlio della sua storia, certo, ma soprattutto di un processo di cambiamento che non riguarda solo le pratiche operative, quanto – e forse ancor più – le dimensioni culturali e politiche che ne sono alla base.
Eppure, in questa fase di trasformazione, non possiamo rimanere immobili o disattenti. Da un lato, infatti, le comunità storiche di cura – quei luoghi e spazi fondati sulla relazione, sulla condivisione e su un’autentica dimensione umana del prendersi cura – vengono progressivamente marginalizzate. La loro presenza e il loro valore sembrano non essere più riconosciuti né dal sistema sociale né da quello sanitario, che invece privilegiano modelli più standardizzati e burocratici. Dall’altro lato, non possiamo accettare che la cura promossa oggi dagli enti del Terzo settore si riduca a un semplice susseguirsi di prestazioni impersonali, uniformate a protocolli e checklist, senza lasciare spazio alla complessità e all’unicità delle persone. Questo modo di agire rischia di spersonalizzare il welfare, di snaturarne l’essenza e di renderlo poco reattivo ai nuovi bisogni che emergono continuamente nella società.
Nel mio percorso personale e professionale, mi sono sempre interrogato sulla direzione che stavano prendendo queste comunità di cura. La riflessione è nata da due aspetti che si intrecciano: da un lato, il confronto con le pratiche di cura che tentano di mettere al centro le esigenze reali e le storie delle persone; dall’altro, l’osservazione delle trasformazioni normative che hanno progressivamente modificato il quadro entro cui il lavoro di cura si svolge, passando da un’esperienza spesso spontanea e “artigianale” a un modello più strutturato e normato.
Non si tratta di un tema semplice o lineare. Le trasformazioni del welfare prestazionale vanno lette insieme alla storia e al valore degli spazi comunitari. Perché tradizionalmente la comunità non era solo un luogo di socialità o di riabilitazione: era anche una risposta alternativa a un sistema che tendeva a chiudere fuori chi viveva in condizioni di marginalità. Queste comunità, attraversate da spinte e cambiamenti, sono state capaci di far emergere bisogni che altrimenti sarebbero rimasti invisibili, e proprio grazie a queste esperienze il Terzo settore ha saputo dare impulso a leggi e politiche sociali fondamentali per il nostro welfare. Tuttavia, questo processo ha portato anche a una progressiva sistematizzazione della cura. Da una parte, si è assistito a un aumento della professionalizzazione, con una crescente metodologizzazione e specializzazione degli interventi. Dall’altra, le comunità sono state “ingabbiate” in una cornice normativa che le ha trasformate in veri e propri servizi, e questo ha avuto un impatto ambivalente.
Il riconoscimento accademico e professionale degli operatori è stato certamente un passo importante, che ha permesso di valorizzare le competenze e la dignità di chi lavora in questi contesti. Ma allo stesso tempo, le comunità sono state rinchiuse in categorie rigide, definite sulla base dei gruppi di “pazienti” a cui si rivolgono. Uso il termine “pazienti” consapevolmente, perché l’organizzazione dei servizi secondo un modello clinico ha trasformato le persone accolte in semplici destinatari di prestazioni, togliendo loro quel ruolo attivo che era alla base dell’idea originaria di cura. L’appartenenza a un gruppo è diventata funzione di una diagnosi piuttosto che dell’interezza e complessità del bisogno. Così, la cura si è spersonalizzata, perdendo quell’ampiezza e profondità che avevano motivato la nascita stessa delle comunità.
La parola “comunità” ci può aiutare a ritrovare una bussola. Deriva dal latino communitas, che si compone di “com-” (insieme) e “munus” (dovere, funzione, dono). La comunità è dunque un gruppo di persone che condividono doveri, funzioni e beni comuni, unite da un obiettivo collettivo. La radice munus richiama un senso di responsabilità condivisa, una cura reciproca. La comunità è soprattutto una rete di relazioni, un tessuto connettivo fatto di esperienze, valori, risorse, solidarietà e mutuo sostegno. Non si tratta semplicemente di un insieme di individui, ma di una realtà viva in cui ogni persona conta per sé e come parte di un tutto. Dall’altra parte, il termine “servizio” deriva dal latino servitium, legato a servus, che indica lo stato di chi è al servizio di altri. Nel tempo, il significato si è ampliato fino a indicare attività o prestazioni svolte a beneficio degli altri. Questi due termini, comunità e servizio, sono entrambi centrati sull’interconnessione e sulla responsabilità condivisa, ma oggi spesso vengono vissuti come se fossero in contrapposizione. Molti enti del Terzo settore, ad esempio, separano uno “spazio valoriale” di comunità da una dimensione tecnica e gestionale propria del servizio. Il vero cambiamento che dobbiamo cercare è invece l’integrazione: un welfare che sia una comunità organizzata e un servizio che valorizzi le relazioni.

Gli Enti del Terzo settore occupano un ruolo centrale nel sistema pubblico di welfare, ma non è scontato che questo ruolo sia sempre pienamente esercitato a favore dell’interesse generale. È necessario evitare che questi enti si chiudano in una logica autoreferenziale, anteponendo i propri interessi organizzativi agli interessi collettivi. Il principio di sussidiarietà è fondamentale in questo percorso. Riconosce pari dignità a istituzioni pubbliche ed enti privati autorizzati, mettendo a disposizione di tutti la responsabilità e la cura del bene comune. Ma la realtà operativa è spesso diversa. Molti enti del Terzo settore, che gestiscono spazi di cura, sono legati a budget limitati e vincoli che li pongono in una posizione subordinata rispetto al sistema pubblico. Si genera così un corto circuito rispetto al significato originario di sussidiarietà, che trasforma la relazione in una semplice assegnazione di prestazioni. Eppure, molti dei servizi nati e gestiti dal Terzo Settore sono state esperienze innovative, capaci di leggere i bisogni e proporre risposte nuove e creative.
L’Italia ha una storia di welfare intrecciata con politiche sociali e sanitarie che, a partire dagli anni ’90, hanno cercato di omologare e standardizzare il sistema. Inizialmente, le riforme valorizzavano gli spazi comunitari come luoghi di presa in carico, ma nel tempo si è assistito a una loro progressiva “imbrigliatura” in logiche di prestazione, spesso equiparandoli al privato convenzionato o usandoli come strumento di contenimento della spesa.
È proprio in questo dualismo, tra comunità e servizio, che si gioca oggi la possibilità di ripensare l’identità degli spazi di cura. Il concetto di cura deve tornare a fondarsi sull’“I care” – sulla responsabilità personale e collettiva verso il mondo e chi lo abita. È uno spartiacque che distingue la società che vogliamo costruire dal sistema di cura che intendiamo promuovere. Per fare questo salto serve un cambiamento profondo anche nei servizi, spesso ancora bloccati in logiche prestazionali e burocratiche. Serve una consapevolezza maggiore del valore dell’ecosistema che sostiene questi spazi di cura, fatta di relazioni, territorio e partecipazione. Serve costruire percorsi professionali e valoriali capaci di innovare senza perdere l’identità originaria. E questo è ancora più urgente in un momento in cui molti operatori storici si avviano alla pensione e il rischio è di perdere saperi e sensibilità preziosi.
Guardando alla storia del welfare italiano e al ruolo del Terzo settore come co-costruttore di spazi di cura e politiche sociali, la sfida è quindi chiara: ripensare i servizi comunitari affinché non si irrigidiscano o si lascino risucchiare da dinamiche autoreferenziali. La direzione da prendere è quella di un servizio su base comunitaria che richiami sia la resistenza sia la responsabilità verso il presente e il futuro. Nell’esperienza concreta, anche a livello internazionale, possiamo guardare ai modelli di intervento come la Community-Based Rehabilitation (Cbr) e la sua evoluzione in Community-Based Inclusive Development (Cbid). Nato per contesti con poche risorse, il modello Cbr ha superato la dimensione sanitaria per abbracciare una visione più ampia, centrata sui diritti, sull’inclusione e sulla partecipazione attiva delle persone con disabilità e delle comunità stesse. Non si tratta più di “curare” o “riabilitare” soltanto, ma di trasformare i contesti per renderli accessibili e partecipativi, valorizzando l’empowerment e la corresponsabilità. Questi approcci internazionali ci insegnano che la partecipazione, il coinvolgimento multisettoriale e la multidisciplinarietà non sono solo parole d’ordine, ma elementi fondamentali per costruire servizi e comunità resilienti e capaci di rispondere ai cambiamenti. Infine, la sfida più grande è passare da una visione di sanità intesa come mera erogazione di prestazioni a una più ampia visione di salute che metta al centro la persona in tutte le sue dimensioni e la relazione con il territorio. Occorre ripensare l’architettura dei servizi in modo più dinamico, meno rigido, più aperto a dialogare con il mondo esterno e a favorire reti e alleanze.
Il futuro dei servizi di cura deve poggiare su due pilastri imprescindibili: l’attenzione alla persona nella sua interezza e la consapevolezza che la cura è sempre parte di un ecosistema relazionale e territoriale più ampio, fatto di comunità, famiglie, volontariato, istituzioni e reti sociali.
L’autore di questo articolo è direttore generale della Comunità di Capodarco dell’Umbria
Foto: Archivio VITA
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