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Discriminazioni

La parità di classe? Ancora più lontana della parità di genere

Per una donna che proviene da una famiglia bene è molto più facile avvicinarsi alla cima della scala rispetto al figlio maschio etero di una coppia che gestisce un chiosco di piadine

di Simone Cerlini

Il professore vi squadra, sembra osservare il vostro abbigliamento e ancor prima di formulare la prima domanda notate una certa diffidenza: vi si fa subito chiaro che l’esame sarà in salita. Nel processo di selezione dopo un primo colloquio tecnico eccellente il recruiter è infastidito dal vostro accento nel parlare inglese e capite che non avete scampo. In un dotto simposio quando gli altri relatori scoprono che non avete dottorato si disinteressano a priori dei vostri argomenti. 

I marcatori della classe sono l’abbigliamento, la padronanza delle lingue, le abitudini culturali, lo stile di consumo, i titoli di studio formali, i valori. I pregiudizi che derivano dalla classe sociale sono molto radicati ma non se ne può parlare: non mobilitano risvegli collettivi, prese di posizione ideali, manifestazioni di piazza e non rientrano tra gli indicatori specifici nei bilanci integrati. 

Chi mai lotterebbe per rompere il tetto di cristallo a favore di persone immerse nel pregiudizio patriarcale, senza titoli terziari, che vestono scegliendo palette non coerenti alla stagione?

Questo perché sono rare le occasioni in cui chi proviene dalla classe dei servi ha l’opportunità di entrare nel mondo delle élite e prende consapevolezza del suo proprio tetto di cristallo. La grande differenza tra i movimenti di emancipazione delle donne (oppure in particolare nelle società più aperte e multiculturali della nostra sull’etnia e la provenienza nazionale), rispetto alla percezione viscerale delle ingiustizie di classe, deriva dal fatto che per una donna che proviene da una famiglia bene è molto più facile avvicinarsi alla cima della scala rispetto al figlio maschio cis (persona la cui identità di genere coincide con il genere assegnato alla nascita) etero di una coppia che gestisce un chiosco di piadine, così come negli Stati Uniti un indiano che ha studiato al Mit ha più probabilità di avvicinarsi al top di una grande azienda tecnologica rispetto al figlio wasp (white anglo-saxon protestant) di un percettore di assegno sociale della Rust Belt


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Dico “avvicinarsi” perché i pregiudizi sono associati alle discriminazioni e le differenze producono uno stigma che rende comunque sempre più difficile l’ascesa, mano a mano che si sale come responsabilità e, soprattutto, come retribuzione. Una donna riconoscerà di avere lottato ed essersi impegnata il doppio dei colleghi uomini per essere arrivata dov’è, così come l’afroamericano o il palestinese. E arriveranno ad un punto dove il gradino superiore è comunque precluso. Non diversamente accade per chi proviene da una famiglia di lavoratori o di percettori di sostegno sociale.

Non è impossibile tra l’altro che un manager Diversity & Inclusion deduca dal vostro abbigliamento e dal vostro titolo di studio (magari anche dalla provenienza geografica) la vostra posizione nei confronti del patriarcato, applicando un pregiudizio sui vostri presunti pregiudizi. Un maschio cis etero della classe dei servi, magari proveniente da una periferia del sud del Paese, sarà per lei/lui quasi certamente un caso perso alla causa, anzi probabilmente un nemico da combattere e ogni sua parola sarà interpretata secondo questa lente: se sembra consapevole, allora finge. Non ultimo, il linguaggio e le tecnicalità del mondo inclusivo sembrano essere una prerogativa di classe: devono essere appresi in contesti formali, o dibattuti nei luoghi tipici di formazione della cultura delle élite, ad esempio nei podcast di Radio3 o su Internazionale. Chi li padroneggia, ne ha un vantaggio competitivo ed è incredibilmente più probabile che li padroneggino i membri delle élite (magari provenienti dalle grandi città). Così si perpetua la differenza e si rende impossibile combatterla. 

Chi mai lotterebbe per rompere il tetto di cristallo a favore di persone immerse nel pregiudizio patriarcale, senza titoli terziari, che (orrore) vestono scegliendo palette non coerenti alla stagione? Perché come noto si tratta di persone solitamente grette, ignoranti, intolleranti e con una chiara propensione al fascismo e affascinati dall’autoritarismo e dall’uomo forte.

René Girard a partire da “Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo” ha messo in luce la legge universale del “capro espiatorio”, che ha permesso alle diverse società della storia di sopportare il caos e la disperazione dell’esistenza, scaricandone la colpa su gruppi umani sacrificali, volta a volta identificati per etnia, religione, genere, o qualsiasi altro tipo di devianza. Eliminato il Malaussène di turno, il mondo sarebbe rinato all’ordine e alla giustizia. Oggi vogliamo convincerci che la consapevolezza abbia dissolto questa pratica tribale, come in un’abreazione freudiana. Vogliamo illuderci di esserci affrancati tramite il sapere e la cultura dalla legge nascosta delle nostre comunità. Nasce il dubbio invece che essa permanga, bene incistata nelle subculture che si confrontano e si combattono, bene nascosta dietro alle cose prima nascoste. E proprio tra i più tolleranti e i più aperti, o coloro che si definiscono tali, i perseguitati rimarranno sempre gli ultimi: sarà sempre tra i servi che cercheranno il nemico.

Foto di Life Of Pix/Pexels


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